Pavia - La Poesia di Clemente Rebora
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la poesia di Clemente Rebora
memo
nel cinquantesimo anniversario della morte dell’autore un incontro con
il poeta Davide Rondoni
il professor Gianni Mussini
organizzato dal Centro Culturale Giulio Bosco
Il bene che è la poesia
Perché la poesia, perché il faticoso lavoro di scrivere? Perché la pazienza di cercare e attendere la parola giusta? Madri e insegnanti chissà quante volte si sono sentiti rivolgere questa domanda! Eppure non occorre aver vissuto molto per riconoscere che, se si dovesse in un attimo decidere di salvare poche cose del frutto della fatica umana, salveremmo la poesia. Sì, la poesia. Scrivere è dire se stessi, è un mezzo per diventare più consapevoli del proprio cammino, per riconoscersi grandi o pieni di limiti, ma uomini. La poesia è un dire particolare. Ha dentro un mistero in più perché accantona il linguaggio solito, informale, per servirsi di una lingua sua, in cui ogni parola ha il suo posto ed è insostituibile con un’altra. Si può parlare di tutto in poesia, come ci ha dimostrato Dante, nella Commedia: amore, politica, denaro,vita e morte. Tutto è poesia perché ogni cosa ha una profondità e una verità, nascosta tra le rugosità o i bagliori degli oggetti e degli animi, che lo sguardo è spinto a cercare. La poesia è forma dello sguardo e voce ragionevole del cuore. E’ un amore che spinge a trapassare il limite dell’apparenza per esprimere l’anelito dell’anima. Il Novecento ci ha regalato molti poeti, indomiti ricercatori su strade aspre, voci dell’inquietudine e della solitudine della modernità che avanzando schiacciava l’anima, contestava la tradizione, portava solitudine.
Oggi ricordiamo Clemente Rebora, un poeta rimasto un po’ in ombra rispetto ad altri nomi del secolo. Secondo il poeta Giovanni Raboni è il più grande poeta del Novecento insieme a Montale di cui fu grande amico. Nato a Milano nel 1880, in una famiglia culturalmente molto vivace, il padre seguaci degli ideali di Mazzini, visse a pieno il suo tempo. Una produzione divisa in due parti, segnata dalla conversione nel 1929 e dall’entrata nell’ordine Rosminiano in età matura. Nella povertà della cella del convento, immagine della povertà di spirito che lo caratterizzò fin dalla giovane età e nella prima produzione poetica in cui appare poeta dell’attesa, scrisse che “far poesia è diventato per me più che mai, modo concreto di amare Dio e i fratelli...Il mio pregare è divenuto invocazione muta, interna, di ogni momento”. Oggi la poesia può aiutare la ragione nel coraggio della verità, nell’anelito alla libertà vera, che nulla ha a che vedere con il “farsi da sé”, bensì con lo scoprirsi fatti da un amore. Liberi perché amati. “Quando morir mi parve unico scampo,/varco d’aria al respiro a me fu il canto:/ a verità condusse poesia/ (...) Svanì il creato ed apparve il Creatore/ (...) La Parola zittì chiacchiere mie”. (Curriculum vitae, 1956)
Elena Pagetti