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Roma - «Liberi di vivere»

Fonte:
CulturaCattolica.it
«Liberi di vivere»: appello al presidente Napolitano affinché le persone malate di SLA possano vivere con dignità e libertà
memo

Mario Melazzini e Marco Piazza martedì 4 Dicembre 2007 alle ore 18 saranno ospiti della Camera dei Deputati – Sala delle Colonne, via Poli 13 – Roma per lanciare «Liberi di vivere», l’appello al presidente Napolitano affinché le persone malate di SLA possano vivere con dignità e libertà.

con loro saranno presenti:
Livia Turco (Ministro della Salute), Ignazio Marino (Presidente Commissione igiene e sanità del Senato, Partito Democratico), Antonio Palmieri (deputato Forza Italia), Luca Volonté (Deputato, Presidente gruppo parlamentare UDC), Massimo Pandolfi (caporedattore «Il Resto del Carlino – QN). Coordina i lavori Mauro Mazza, direttore del Tg2

Mario Melazzini è autore con Marco Piazza del libro "Un medico, un malato, un uomo. Come la malattia che mi uccide mi ha insegnato a vivere", edizioni LINDAU.

Alcune riflessioni di Mario Melazzini sulla malattia.
"A volte può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza possibilità di alternative.
Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, è ancora consentito guardare avanti.
È proprio questo il nocciolo della questione. Quando si ha la fortuna di conservare intatte e inalterate le proprie capacità cognitive, si può sempre pensare a ciò che è possibile fare, piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare.
Se si ragiona in questi termini, la malattia può davvero diventare una forma di salute. È salutare perché permette di sentirsi ancora utili per se stessi e per gli altri, incominciando dai propri familiari, per proseguire con gli amici e i colleghi di lavoro.
Ed è salutare perché aiuta a rendersi conto che nella vita non bisogna dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare. A volte siamo così concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza delle persone e delle cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la propria scala di valori cambi. Che ci si accorga di come le cose che fino a quel momento consideravamo più importanti non lo siano davvero.
La malattia, insomma, può essere addirittura una cosa positiva. Purché il malato sia messo in condizione di vivere dignitosamente, e purché qualcuno si faccia carico dei suoi problemi e di quelli della sua famiglia. Di tutto questo, purtroppo, si parla pochissimo. Sono tempi in cui si discute sempre più spesso, e con sempre minore chiarezza, di diritto alla morte, di eutanasia, di suicidio assistito, del principio di autodeterminazione del paziente.
Io penso che riconoscere la dignità dell’esistenza di ciascun essere umano sia il punto di partenza di una società che si definisce civile. Bisogna occuparsi del malato e impegnarsi affinché la malattia e la disabilità non siano criteri di discriminazione sociale e di emarginazione.
Dobbiamo farlo noi medici, per primi, insieme a tutti gli operatori sanitari. Noi che abbiamo la grandissima fortuna di poterci rapportare con chi soffre, con persone che possono e spesso riescono a trasmetterci e a insegnarci molto. Abbiamo il dovere di aiutarli.
Ciò che manca è una reale presa in carico del malato, una corretta informazione sulla malattia e sulle sue problematiche, una comunicazione personalizzata con la famiglia. Tutte cose che possono «spianare» il percorso della consapevolezza e facilitare e applicare concretamente le decisioni condivise durante la progressione della malattia. Non si può chiedere a nessuno di uccidere. Una civiltà non si può costruire su un simile falso presupposto. Perché l’amore vero non uccide e non chiede di morire.
Sarebbe importante discutere su cosa si stia facendo per evitare l’emarginazione delle persone con gravi patologie invalidanti. Ragionare su quanto realmente, al momento attuale, si stia investendo nell’assistenza domiciliare e nella cultura della salute. Chiedersi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di assistenza qualificata, di supporto adeguato alla famiglia, di reti di servizi sociali e sanitari organizzati, di solidarietà e di coinvolgimento e sensibilità da parte dell’opinione pubblica scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e di abbandono a causa delle quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita.
Eppure la Costituzione italiana, tutte le leggi vigenti nel nostro Paese, il codice di deontologia medica, oltre alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e alla recente Convenzione sui Diritti e la Dignità delle Persone con Disabilità, affermano la dignità di tutti ad avere il diritto all’accesso alle cure.
Ecco, io mi batterò finché posso perché queste leggi vengano applicate, perché la dignità delle persone fragili sia riconosciuta e favorita con i fatti. Perché, lo ripeto, sono convinto che un corpo malato può portare salute all’anima, rendendola più forte, più tenace, più determinata. L’urgenza dettata da uno stato patologico può diventare uno stimolo enorme per raggiungere traguardi considerati impensabili e apparentemente preclusi nella «vita precedente».
La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti e fa anzi capire che l’«essere» conta di più del «fare». Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la porta per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita."