CL: per “tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri”
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Spesso, riflettendo sulla vita e l’esperienza del Movimento, soprattutto in questi giorni dopo la nota della Segreteria di CL a tutte le comunità sul «Family day» del 20 giugno u.s. e la comunicazione di Julián Carrón di qualche giorno dopo, ho avuto occasione con molti amici di confrontarmi sulla natura della nostra esperienza.
In un intervento ad una assemblea ho così espresso le mie riflessioni: «mi ha aiutato in questo periodo l’amore alla storia vissuta, e alla chiarezza di alcuni giudizi. Ho seguito con passione l’indicazione di leggere la storia di don Giussani e «In cammino». Da subito mi ha colpito il giudizio con cui si è aperta la riflessione (oltre al fatto che le assemblee, come il Giuss le viveva, sono sempre state la storia di un accadere, un evento dello Spirito, per cui lo stesso don Giuss sembrava imparare e ci insegnava ad ascoltare). A pag 17-18 di «In cammino» mi ha colpito – e mi ha allargato lo sguardo – questa affermazione: «In questo senso, allora, le elezioni sono una occasione missionaria. Giussani: In quale senso? ripeti. Intervento: Nel senso che sfidano a stare più concretamente nella realtà e perciò a cogliere di più il nesso tra Cristo e la realtà. Giussani: Guardate che questa affermazione è molto importante, educativamente parlando; non capite cos’è il Signore e non capite cos’è il cristianesimo senza capire questa frase: non si può comprendere Cristo se non... nel nesso con la realtà. Nel nesso con la realtà, nel nesso col modo con cui tratti la ragazza, nel nesso col modo con cui tratti l’esame che devi fare, nel nesso col modo con cui ti alzi al mattino». E l’altra affermazione, che ho anche scritto a Carrón, la trovo sul «Rischio educativo»: «Il potere mondano tende a risucchiarci: allora la nostra presenza deve fare la fatica di non lasciarsi invadere, e questo avviene non solo ricordando e visibilizzando l’unità tra noi, ma anche attraverso un contrattacco. Se il nostro non è un contrattacco (e per esserlo deve diventare espressione dell’autocoscienza di sé), se non è un gusto nuovo che muove l’energia di libertà, se non è un’azione culturale che raggiunge il livello dignitoso della cultura, allora l’attaccamento al Movimento è volontaristico, e l’esito è l’intimismo. L’intimismo non è presenza, per l’intensità e la verità che diamo a questa parola. Nelle catacombe si crea un proprio ambito, quando non si può fare assolutamente in modo diverso e si è nel dolore dell’attesa di una manifestazione. La modalità della presenza è resistenza all’apparenza delle cose ed è contrattacco alla mentalità comune, alla teoria dominante e alla ideologia del potere; resistenza e contrattacco non in senso negativo, di opposizione, ma come lavoro.» [Giussani, Il rischio educativo, SEI, p. 77]»
Di fronte a queste mie parole l’insistenza maggiore di chi ha guidato l’assemblea (ma anche sui social network mi è stata fatta la stessa osservazione) è stata quella sull’unità con chi guida il movimento. Certo, si è detto, siccome sono giudizi «storici» nulla vieta che non li si condivida pienamente.
Ho risposto in questo modo, con una lettera che ho mandato a molti partecipanti alla assemblea: «Amici, ho posto una questione che non mi pare irrilevante: quello che accade ci provoca ad approfondire sempre di più la natura del carisma del movimento. E il richiamo del Papa a proposito della autoreferenzialità non può essere evacuato come una pia raccomandazione. Del resto già San Giovanni Paolo II ci aveva ricordato che «Quando un movimento è riconosciuto dalla Chiesa, esso diventa uno strumento privilegiato per una personale e sempre nuova adesione al mistero di Cristo. Non permettete mai che nella vostra partecipazione alberghi il tarlo dell’abitudine, della routine, della vecchiaia! Rinnovate continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo Signore!» Avendo chiesto questo, non mi basta l’esortazione all’unità. Se non la desiderassi non parteciperei alle assemblee.
Ho citato già altre volte quel testo del «Rischio educativo», dove si riporta quanto affermato a Viterbo (e io c’ero, allora) e che mi pare importante perché sembra avere di mira quello che sta accadendo. Lo riprendo: «Il potere mondano tende a risucchiarci: allora la nostra presenza deve fare la fatica di non lasciarsi invadere, e questo avviene non solo ricordando e visibilizzando l’unità tra noi, ma anche attraverso un contrattacco…»
Ma è mai possibile che questa sottolineatura (visibilizzazione dell’unità/contrattacco culturale) debba sempre cadere nel vuoto, pensando che siccome i tempi sono cambiati, allora non vale più? E se l’obiezione è che Viterbo era nel 1977, allora perché non tenere conto di quell’altro giudizio (tratto da «In cammino» e riferito al 1992): sulle «elezioni [come] una occasione missionaria»?
Vorrei risposte nel merito, non mi bastano questioni che rischiano di essere «procedura». Oh, certo, so bene che l’«unità del movimento» è qualcosa di più grande. Anche se noto che questo termine sembra sparito, sostituito dall’unità con chi guida, dall’unità con Carrón, ecc…
[…] Sarà possibile vivere anche tra noi quel «movimento nel movimento» tanto auspicato dal don Giuss? Oppure anche le nostre assemblee dovranno essere luogo di ripetizione e non di autentica comunione?»
Ma qual è la radice dell’unità così come ce la insegna don Giussani? Mi pare che la risposta sia in don Giussani stesso: per lui l’unità è il primum della sua coscienza. È perché lui non vive una esperienza divisa che può con tanta insistenza richiamare all’unità. Non è una questione di partito, né l’immagine guareschiana del trinariciuto, ma una persona unificata dal rapporto con Cristo a tal punto che può paragonare la Sua concretezza «al piatto di patate che gli sta di fronte» o che può affermare, dopo avere detto che «la nostra non può essere una presenza reattiva. Reattiva significa determinata dai passi altrui, porsi con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità nuova» che «questo gesto di carità deve diventare anche, per esempio, il tentativo di mandare ai Consigli di facoltà e di amministrazione della gente che aiuti tutti umanamente, e non avventurieri della politica o degli inetti, ecc…».
A questo proposito, proprio per comprendere il costante richiamo all’unità (e non dimentichiamo che è il dia-ballo che divide!) mi sono sempre di aiuto queste note straordinarie dell’allora Card. Ratzinger a proposito della coscienza: «In contrasto con la pretesa dei dottori gnostici, i quali volevano convincere i fedeli che la loro fede ingenua avrebbe dovuto essere compresa e applicata in modo totalmente diverso, Giovanni poté affermare: “Voi non avete bisogno di una simile istruzione, dal momento che, come unti (battezzati), voi conoscete ogni cosa” (cfr. 1 Gv 2, 20.27). Ciò non significa che i credenti possiedano una fattuale onniscienza, ma indica piuttosto la certezza della memoria cristiana. Essa naturalmente impara di continuo, ma a partire dalla sua identità sacramentale, e operando così interiormente un discernimento tra quanto è uno sviluppo della memoria e quanto è una sua distruzione o una sua falsificazione. Oggi noi, proprio nella crisi attuale della Chiesa, stiamo sperimentando in modo nuovo la forza di questa memoria e la verità della parola apostolica: più delle direttive della gerarchia è la capacità di orientamento della memoria della fede semplice che porta al discernimento degli spiriti. Solo in tale contesto si può comprendere correttamente il primato del Papa e la sua correlazione con la coscienza cristiana. Il significato autentico dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il Papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il Papa, perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede e che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale»
Ecco allora, per me, il valore di queste note di don Giussani sull’unità (e non posso dimenticare che uno dei primi libri che ho gustato, suggerito da don Giussani stesso è L’unità nella Chiesa di J. A. Möhler, quello stesso che ha affermato che sarebbe morto se non avesse più sentito Gesù).
«[…] Non esiste un individuo sospeso per aria, esiste una identità incarnata: non può esistere una identità se non nella situazione. Il problema non è l’unità con il Cle (Comunione e Liberazione Educatori; ndt), con il Clu, con i livelli del movimento; il problema è questa autocoscienza della novità che siamo e che vive nella situazione. Allora si potrebbe essere sprovveduti in università (nei corsi, nei consigli di facoltà), ma ugualmente frementi per la novità che si porta in sé.
Quando cessa l’università è questo fremito d’identità che si deve portare fuori, nella vita della Chiesa, nell’impegno civile, sociale e politico.
Allora anche l’impegno politico è impostato come lavoro culturale, perché si ha coscienza di quello che vuol dire lavoro per il bisogno culturale. Si tratta della coscienza di un popolo che approfondisce sempre di più, a contatto con gli avvenimenti, la chiarezza di portare in sé la risposta alla crisi.»
«Fa parte del metodo di aiuto alla fede una comunionalità espressa.
La comunionalità espressa implica l’oggettivarsi il più possibile dell’unità in cui ci riconosciamo. L’esplicitazione di una comunionalità è perciò un coinvolgimento della vita intera, cosicché quello che accade all’altro non può più essere senza incidenza e coinvolgimento della propria vita (a tutti i livelli da quello spirituale a quello materiale). Questo coinvolgimento è vero quando passa attraverso la libertà di ciascuno. La comunionalità della vita è un principio con cui giudicare sé e le cose che si fanno, più che essere una quantità di cose da fare. Tant’è che non c’è vera comunione se non si passa attraverso il filtro della storicità e del temperamento di ciascuno. Bisogna che si veda che siamo una cosa sola, bisogna che il mondo veda che i cristiani sono una cosa sola. Se questo non lo perseguiamo noi con discrezione e libertà di cuore, e quindi nell’ilarità dello spirito, chi lo può perseguire?
Noi dobbiamo dare l’esempio di cosa vuol dire essere una cosa sola, esplicitamente, espressamente, secondo la libertà e la storicità della propria persona. Invece normalmente il coinvolgimento comunionale o è demandato a certe forme o viene richiesto moralisticamente.»