«Realismo & coraggio di don Sandro»
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«Don Sandro», come lo chiamavo da quando l’ho conosciuto tanti anni fa, appena uscito dal seminario, era un esemplare uomo di Chiesa. In lui viveva la gloriosa tradizione ambrosiana che aveva imparato alla scuola degli insigni maestri di Venegono; esperienza che poi si era sintetizzata, per lui, nella forte lezione di vita e di cultura dell’altrettanto esemplare cardinale Giovanni Colombo. La tradizione della Chiesa ambrosiana traccia una storia di profondo radicamento popolare; don Sandro era un uomo del popolo, nato in un piccolo paese del magentino, che ha sempre sentito vivo e indistruttibile il legame con la realtà della comunità cristiana, con il respiro delle parrocchie, delle confraternite, con la quotidianità di quel popolo che mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore non per sé stesso ma per il Signore. La sua era una cultura stratificata, soprattutto nei campi della teologia e della filosofia, vasta, con sortite di straordinaria acutezza anche negli domini della letteratura. La sua cultura è nata «sul campo», come nasce sempre la vera cultura cattolica in connessione vitale con il popolo per dare ragioni di vita e di speranza al popolo, per illuminare il popolo ma, contemporaneamente, ricevendo dall’esperienza del popolo quel materiale di vita che la cultura deve elaborare e approfondire.
Uomo di cultura, ma uomo di Chiesa, chiamato alle responsabilità dell’insegnamento prima, ineguagliabile insegnante di Introduzione alla Teologia presso l’Università Cattolica e poi brillante direttore di una delle più belle e coraggiose riviste ecclesiali ed ecclesiastiche, La rivista del clero italiano fondato da padre Agostino Gemelli e da mons. Francesco Olgiati, negli anni eroici della cristianità italiana. Chiamato a una responsabilità pastorale nel mondo della cultura nella Diocesi di Milano, divenne poi, per poco tempo, sei anni, vescovo di Carpi e quindi trasferito nell’antichissima e prestigiosa sede di Como. Uomo di Chiesa, forte della responsabilità di difendere la dottrina della Chiesa ovunque, di fronte a tutti, dentro la Chiesa e davanti al mondo, recuperando la grandezza e il realismo del pensare cristiano.
Fede certa, dialogo & missione
Quando leggevo mons. Maggiolini e lo sentivo parlare mi sembrava di incontrare l’antica tradizione dei padri della Chiesa e i grandi teologi della modernità; nulla era scontato, nulla era ovvio, nulla era detto per compiacere qualcuno. Fluiva dalle sue pagine come dalla sua bocca l’ampiezza di quel pensare cristiano che è profondamente realista, connesso all’esperienza concreta della vita e, insieme, aperto a trascendere la concretezza dell’esistenza nella contemplazione del mistero di Cristo presente, fonte della verità, del bene, della bellezza, della giustizia. Credo sia stato uno straordinario metafisico; non un metafisico di mestiere, ma di intuizione e di esperienza culturale; aveva forte il senso di Dio anche nelle vicende quotidiane della vita e aveva forte il senso di Dio che in Gesù Cristo si è incarnato ed è diventato compagnia permanente all’uomo, nella vita della Chiesa. Educato dalla granitica tradizione teologica di Venegono, anche prima del Concilio Vaticano II egli professava la continuità Cristo-Chiesa in quel «Christus totus» agostiniano e che ha trovato la sua più acuta tematizzazione negli scritti del cardinale Giacomo Biffi. Uomo di Chiesa, cioè uomo di dottrina, uomo di Chiesa, cioè uomo del coraggio apostolico missionario, la Chiesa di Maggiolini, sia quella di Carpi che quella di Como è stata una Chiesa coraggiosamente protesa a incontrare l’uomo storico, concreto, reale, nelle sue vicende di ogni giorno, nelle sfide e nelle difficoltà, nelle lacerazioni e nelle gioie, nei suoi intendimenti come nelle sue deduzioni. La Chiesa di Maggiolini è stata una Chiesa missionaria, una missione che è stata vissuta con determinazione, con coraggio e, al tempo stesso, con grande capacità di rispetto, di coinvolgimento anche con chi non era nella stessa posizione religiosa e ideologica. Ha dialogato con tutti, sempre, dotato anche di un’eccezionale capacità comunicativa che tutti noi gli invidiavamo dai giornali quotidiani, alle riviste più o meno specializzate, alle televisioni in cui egli era un maestro, capace di comunicare le verità anche più difficili con tono profondo e, insieme, profondamente mite.
Uomo di Chiesa, di fede, di missione, di grande carità, una carità nascosta come nei grandi uomini di carità, ma che segnava la sua vita puntualmente, giorno dopo giorno, con episodi inediti di apertura, di coinvolgimento con i problemi e le difficoltà del suo popolo praticante del ministero della riconciliazione. Raggiunta la posizione di Vescovo emerito ha continuato a confessare, ci dicevano il giorno del suo funerale, almeno due ore al mattino e due ore al pomeriggio nell’ombra della sua Cattedrale dove sono passati migliaia e migliaia di penitenti.
Io lo ricordo come un grande amico e un grande maestro di fede, di cultura e di vita, come ho detto nel necrologio. Una cosa ho amato in lui più di tutte le altre, il suo coraggio. C’è da chiedersi se valga la pena assumersi posizioni di responsabilità nella vita della Chiesa, in questo momento che è così tragico e insieme esaltante, se non si ha questa virtù del coraggio. Il popolo ha bisogno di Pastori coraggiosi che dicano con fermezza le grandi verità della fede, che abbiano una indubbia e radicale connessione con la vita di questo popolo che, come diceva acutamente il cardinale Godfried Maria Jules Danneels in una sua bellissima intervista con la rivista 30 giorni, «non è ancora morto». Ci vuole il coraggio di guidare oggi questo popolo che non è ancora morto mentre tutti, attorno a noi, o si augurerebbero che morisse o hanno fatto di tutto perché morisse. Penso a quello straordinario potere massmediatico che dileggia quotidianamente la fede e i suoi principi fondamentali davanti agli occhi di milioni e milioni di telespettatori ai quali viene, sostanzialmente, imposta quasi senza colpo ferire una mentalità atea, edonistica, materialista e, quindi, tutto sommato, antiumana. Ma ci vuole coraggio nella Chiesa e di questo coraggio Maggiolini è stato un campione perché non si è mai piegato al politicamente corretto, non si è mai piegato all’ecclesialmente corretto; ha detto le ragioni della fede con forza e verità anche quando, dirle, era impopolare perché la fede vale più della vita e vale più del consenso e vale anche più del consenso ecclesiastico.
«Lama tagliente di luce di carità»
È passato fra di noi – quando sono entrato a far parte della Conferenza Episcopale italiana era ancora vescovo di Como – come una lama, una lama tagliente di luce di carità e ci ha impedito, almeno a me ha impedito di nascondere la mia vita dentro una truppa. E in questo intendimento e nell’azione pastorale che ne è conseguita mi sono sentito da lui sempre fraternamente sostenuto, nonostante i miei limiti, i difetti.
Don Sandro, che rimarrà nella storia della Chiesa come unico italiano fra i cinque estensori del testo del Catechismo della Chiesa Cattolica, è ora nella pace di Dio come servo buono e fedele; e non è stato fedele nel poco ma nel molto che Dio gli aveva dato, perciò la sua opera certamente va oltre lui, è un fatto di grande ecclesialità e di grande umanità con cui possiamo confrontarci ogni giorno e dal quale possiamo assumere esempio per la nostra vita di oggi. Credo davvero che a uomini come mons. Maggiolini, non soltanto nei primissimi tempi della Chiesa ma, come è accaduto, nel corso della vita della Chiesa, andrebbe bene il titolo di «confessore della fede» e questa impressione e sentimento li ho visti confermati dalla lettura del suo straordinario testamento spirituale fatta dal suo successore mons. Diego Coletti alla fine di quella «lieta» liturgia esequiale. E sottolineo la letizia perché eravamo tutti pervasi dalla consapevolezza che si era chiusa una vicenda terrena ma se ne era aperta una eterna. Il filo conduttore delle due vicende è sempre il filo conduttore della fede, un filo conduttore pieno di letizia e il mio cuore è lieto perché Dio vi è dentro.
+ Luigi Negri