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Muti loquaces: sproloqui sulla sofferenza

Fonte:
CulturaCattolica.it

Ho un motivo per ringraziare Enzo Bianchi dopo avere letto i suoi sproloqui sulla sofferenza, pubblicati da Avvenire domenica 11 dicembre di quest’anno: ho riletto con attenzione lo straordinario testo di Giovanni Paolo II sul dolore, scritto da lui dopo la sua drammatica esperienza (l’attentato del 13 maggio 1981 e la sua degenza in ospedale).
Grato perché un simile documento - Salvifici doloris - (che già avevo letto e riletto) mostra uno sguardo di fede, non parole vuote, sulla condizione umana.

Due note, innanzitutto, su quanto afferma Bianchi (e credo che stia diventando il suo “pallino”, visto che, anche a Rimini, aveva detto pressappoco le stesse cose, come abbiamo già documentato sul sito).
Egli afferma: “…[le] malattie mentali (gli «indemoniati», che designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, mali la cui origine era attribuita a un impossessamento diabolico)…” e, più avanti: “Oppure, si pensi all’incontro di Gesù con il cosiddetto «indemoniato di Gerasa»”. Noi riteniamo che il demonio non sia un termine per descrivere la malattia in tutte le sue manifestazioni. Quando il Vangelo parla di “indemoniati” intende una realtà ben identificabile, e qui ogni tentativo di “demitologizzazione” si scontra con la chiara dottrina della Chiesa (Così dice il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 550: La venuta del Regno di Dio è la sconfitta del regno di Satana: [Cf Mt 12,26 ] “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il Regno di Dio” (Mt 12,28). Gli esorcismi di Gesù liberano alcuni uomini dal tormento dei demoni [ Cf Lc 8,26-39 ]. Anticipano la grande vittoria di Gesù sul “principe di questo mondo” (Gv 12,31). Il Regno di Dio sarà definitiva mente stabilito per mezzo della croce di Cristo: “Regnavit a ligno Deus - Dio regnò dalla croce” [Inno “Vexilla Regis”]).
L’altra considerazione su quanto afferma Bianchi è sull’offerta della propria sofferenza, destituita secondo lui di ogni valore. Certo, è vero che è l’amore che salva, e che l’offerta è della persona, non di qualcosa, ma è anche vero che, quando, ad esempio, S. Paolo chiede di “offrire i nostri corpi come sacrificio spirituale”, in questa offerta entra tutto, anche la sofferenza, anche le gioie, anche le fatiche, anche le delusioni, anche… tutto ciò che ci accade.
Ho più volte affermato che il compito del cristiano è di seguire il Magistero con amore ed intelligenza. Perché allora, in questo caso (come in altri - tanti - casi) non partire da qui?
A noi non bastano chiacchiere consolatorie e sentimentali. E soprattutto amiamo - nella Chiesa - le testimonianze dei santi (che, a proposito del dolore, dicono cose molto diverse da quanto ci vuole ammannire Enzo Bianchi). Ci conforta quanto già Paolo VI diceva a proposito dei professori e dell’uomo di oggi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, - dicevamo lo scorso anno a un gruppo di laici - o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».

Certo, non possiamo dimenticare che Enzo Bianchi è tra i firmatari di quella “Lettera ai Cristiani” in cui così si precisava il compito dei cosiddetti “teologi”: «In questo contesto, nel riconoscimento del “carisma certo della verità” secondo i criteri che man mano la tradizione ecclesiale ha approfondito, non pensiamo che i teologi assolverebbero il loro compito semplicemente divulgando l’insegnamento del magistero e approfondendo le ragioni che ne giustificano le prese di posizione. Essi si pongono infatti al servizio della Chiesa anche quando raccolgono e propongono le domande nuove dell’intelligenza che scaturiscono dalle situazioni nuove che la fede attraversa, o quando percorrono assieme ai loro fratelli nella fede sentieri inesplorati sui quali pure si dovrà realizzare la fedeltà al Signore.».

Allora ripassiamo quanto ci ha insegnato il Papa Giovanni Paolo II, e facciamolo oggetto sia di riflessione (e quanto ne abbiamo bisogno in questi drammatici tempi di dolore di sofferenza), sia di annuncio e di testimonianza. Non possiamo dimenticare quelle immagini, che hanno fatto il giro del mondo, in cui Giovanni Paolo II abbracciava con amore la croce del Signore. E non possiamo neppure dimenticare quella scena del film di Mel Gibson, The Passion, in cui Gesù, abbracciando la croce che gli sarebbe stata posta sulle spalle, si sente dire dall’altro condannato “e che fai, abbracci la croce?”.
Ci è caro pensare che “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
Noi, che vogliamo vivere così questa fede pensandola e accogliendola, preferiamo avere come maestri guide il Papa, piuttosto che questi “muti loquaces” [chiacchieroni che non dicono nulla], come già li definiva Sant’Agostino.

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