Cormac McCarthy vs R. Castellucci
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Un padre e un figlio. Anche qui, come nello spettacolo Sul concetto di Volto nel figlio di Dio di Romeo Castellucci.
Anche qui desolazione. E la morte che incombe. Qui: nel romanzo La strada di Corman McCarthy, Premio Pulitzer 2007, per la cui trama ed altri approfondimenti rimando agli articoli a questo correlati.
Non edulcora le scene, l’autore, nella descrizione dell’apocalisse cui si trovano di fronte i due protagonisti nel loro cammino verso sud, alla ricerca di un luogo dove sia possibile ri-cominciare a vivere umanamente la vita.
“Ovunque cadaveri mummificati. La carne spaccata lungo le ossa, i legamenti secchi come funi e tesi come fili d’acciaio. Raggrinziti e contratti come i corpi dei primitivi conservati nelle torbiere, il volto di tela bollita, i paletti ingialliti dei denti”. (…) “Un pavimento d’argilla. Un vecchio materasso macchiato di scuro. Si chinò, scese un altro gradino e illuminò lo spazio davanti a sé. Rannicchiate contro la parete opposta c’erano delle persone nude, maschi e femmine, che cercavano di nascondersi riparandosi il viso con le mani. Sul materasso era steso un individuo con le gambe amputate fino ai fianchi e i moncherini anneriti e bruciati. L’odore era micidiale”.
Detriti: uomini e cose. E miasmi. E un cielo che osserva impotente, quasi con dolore. Per la malvagità dell’uomo, forse. O perché, dall’alto, ha assistito alla scena che il lettore non sa, ma che è origine della storia. L’uomo, da solo, si è perduto. “Oscurità della luna invisibile. Le notti ora solo leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano”.
E’ qui la prima differenza con la performance di-sperata di Castellucci. Qui: in questo sole “esiliato” che “gira intorno alla terra come una madre in lutto con una lanterna in mano”.
Qui. Ancor prima che negli sguardi e nelle parole (poche, ma essenziali) che si scambiano il padre e il figlio nel corso della narrazione. Qui, in questa donna “in lutto”, che, con tenerezza, tenacia e premura materna, non è disposta a cedere e non molla. Non smette di guidare i suoi figli.
All’inizio del romanzo di McCarthy, pagina cinque, la chiave di lettura delle successive duecentotredici pagine, e cioè di tutta la vicenda.
“Il bambino si rigirò nelle coperte. Poi aprì gli occhi. Ciao papà, disse.
Sono qui.
Lo so”.
A pagina cinque, la certezza del figlio di una paternità che è presenza sicura. Una presenza che resta ancoraggio e guida a cui affidarsi sempre e per sempre, qualsiasi cosa accada.
In un mondo che è deserto, e paura, ora però resta solo il cammino: una strada da percorrere insieme, a cercar la salvezza.
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te”.
Non rimangono pietrificati dalla distruzione che vedono intorno; dalla violenza ferina cui assistono, QUESTO padre e QUESTO figlio. Non si lasciano sopraffare dalla distruzione che incombe. Nessuno mette in dubbio la forza e l’indissolubilità del legame, che da un Altro è stato siglato. “Il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”.
Nonostante le difficoltà e i cedimenti lungo il cammino, mai si incrina la fiducia nella positività ultima della realtà. Neanche nei momenti più duri, in cui davvero pare di non farcela più.
“L’uomo cominciava a pensare che fossero a un passo dalla morte e che avrebbero dovuto cercarsi un posto dove nessuno li potesse trovare. A volte, mentre guardava il bambino dormire, gli capitava di scoppiare in un pianto incontrollabile, ma non era il pensiero della morte. Non sapeva bene cosa fosse però gli sembrava che avesse a che fare con la bellezza o la bontà”.
Anche qui, come sul palcoscenico allestito da Castellucci, il padre, alla fine, sta molto male, ma “altro” è il rapporto; “altri” sono gli sguardi tra genitore e figlio…
“L’uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L’uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l’uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.
C’è un padre morente e un figlio bambino che patisce, infinitamente. Soffrono all’idea del distacco. Ma il padre sa qual è il suo compito fino a quando gli resterà l’ultimo soffio di vita, e così, come sempre è accaduto, il padre tra-manda al figlio ciò che ha di più caro. Il piccolo è triste, ma ascolta, accoglie, accetta il compito che gli viene dato. Perché si fida di un padre che è stato ed è la sua forza; che sempre ha saputo donargli speranza.
“Voglio restare con te.
Non puoi.
Ti prego.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
Non so come si fa.
Sì che lo sai.
E’ vero? Il fuoco, intendo.
Sì che è vero.
E dove sta? Io non so dove sta.
Sì che lo sai. E’ dentro di te. Da sempre. Io lo vedo”.
(…)
“Te lo ricordi quel bambino, papà?
Sì, me lo ricordo.
Secondo te sta bene, quel bambino?
Ma certo. Secondo me sta bene.
Secondo te era perso?
No. Non credo che si fosse perso.
Ho paura che si fosse perso.
Secondo me sta bene.
Ma chi lo troverà se si è perso? Chi lo troverà, quel bambino?
Lo troverà la bontà. E’ sempre stato così. E lo sarà ancora”.
Muore, il padre, al termine del romanzo, e su di lui il bimbo si china, pietoso.
“Posso coprirlo con delle foglie?
Il vento le porterà via.
Possiamo lasciargli sopra una coperta?
Ci penso io. Adesso vai.
Ok.
(…)
Tornò nel bosco e si inginocchiò accanto al padre. Era avvolto in una coperta, come l’uomo aveva promesso, e il bambino non lo scoprì ma gli si sedette vicino e si mise a piangere senza riuscire a fermarsi. Pianse per un bel pezzo. Ti parlerò tutti i giorni, sussurrò. E non mi dimenticherò. Per niente al mondo (…) Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti. Ogni tanto la donna gli parlava di Dio. Lui ci provava a parlare con Dio, ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno”.
Ho riletto commossa queste pagine. Non ho potuto non riaprirlo, questo libro, vista la trama della performance Sul concetto di Volto nel figlio di Dio.
Leggevo e pensavo quanto è grande il compito di questo bambino, cui viene passato il testimone, cui è affidata la responsabilità di “portare il fuoco”, di “ri-costruire”. E’ il compito che tutti naturalmente riceviamo da chi ci ha preceduto. E’ compito che dà senso alla vita, perché ciascuno è chiamato a mettere il suo mattone nell’edificazione della casa comune.
Altro è chiesto ai giovanissimi che entrano in scena, nell’opera di Castellucci: pagati, scagliano sassi, dileggiano, distruggono.
Questo sappiamo insegnare, ora, noi adulti? A squarciare, ribelli, l’immagine del Padre e, fatto fuori Lui, a disfarsi del passato e dei suoi testimoni?
“You are not my shepherd”, Tu non sei il mio pastore, Romeo Castellucci!
Di altri pastori, di altri padri, di altri maestri hanno bisogno i più giovani!
Han bisogno, oggi come sempre, di aprire gli occhi, al mattino, con la stessa certezza del bambino del romanzo di McCarthy, pagina cinque.
“Ciao papà, disse.
Sono qui.
Lo so”.