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Messa in latino. Perché?

Autore:
Oliosi, Don Gino
Fonte:
CulturaCattolica.it
La lettera apostolica Summorum Pontificum, un motu proprio di Benedetto XVI da accogliere “con animo grato e fiducioso”

«Il Messale romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino… Il Messale romano promulgato da s. Pio V…deve venire considerato come espressione straordinaria della stessa lex orandi… Queste due espressioni…sono due usi dell’unico rito romano… Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale romanum. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura» [Benedetto XVI, Motu proprio e Lettera ai vescovi, 7 luglio 2007].

Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura
La struttura essenziale della Messa romana si è andata formando nei tempi dai papi Damaso (366-384) e Gelasio (492-494) e ha ricevuto il suo assetto definitivo con l’opera di Gregorio Magno (590-604): con il VII secolo può dunque, considerarsi costituita, anche, quale organismo vivente, continuerà organicamente a crescere ininterrottamente in continuità o Tradizione nei secoli seguenti.
La struttura fondamentale di questa liturgia è così composta:
- la processione dei ministri dalla sacristia al presbiterio durante il canto dell’Introito;
- di seguito, quando il celebrante ha raggiunto la sua sede, il canto del Kyrie e del Gloria, e poi il saluto liturgico e la Colletta, cioè l’orazione che chiude i riti di ingresso e apre la liturgia della Parola;
- quindi la lettura apostolica, i canti interlezionari e il brano evangelico con l’omelia;
- la processione offertoriale accompagnata dal canto e concluso dalla sua orazione;
- il Prefazio concluso dal canto del Sanctus e seguito dalla solenne preghiera eucaristica, il Canone romano;
- poi il Padre nostro e i riti di Comunione con i loro canti;
- infine il saluto liturgico, l’orazione finale, il congedo proclamato dal diacono e la processione di uscita, durante la quale il celebrante benedice i circostanti.
Dal VI secolo questa liturgia si espande con rapidità anche fuori dalla città di Roma: infatti, come ha scritto papa Benedetto XVI nel Motu proprio, san Gregorio Magno “si adoperò perché ai nuovi popoli dell’Europa si trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra liturgia… nel modo in cui si celebrava nell’Urbe”.
La grandiosità allo stesso tempo solenne e sobria della Messa romana, in cui splende come celebrata la fede professata della Chiesa antica, nasce una fede vissuta e pregata da una concezione cosmica del culto divino: “Nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote, si aprono i Cieli... e anche i cori degli angeli partecipano a questo mistero… poiché l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’invisibile diventano una cosa sola” (San Gregorio Magno, Dialoghi, IV, 58,2). Da questa fede professata, celebrata, vissuta, pregata e pensata emerge quel concetto di persona alla radice della cultura cristiana e della civiltà europea. Non solo per l’intelligenza e la volontà ogni uomo ha una tangenza con il divino, ma soprattutto per il suo incontro liturgico con il Dio vivente in quanto Trinità di persone, e con il rapporto di amore che lega una Persona all’altra. Senza uno stretto legame con il “Tu” del Padre, per mezzo del “Tu” del Figlio, nel “Tu” dello Spirito Santo, l’“Io” individuo non si costituisce come “persona” nel noi di comunione ecclesiale e di vita sociale.
A partire dalla struttura essenziale di canti, letture e preghiere dell’antica Messa romana che abbiamo descritto, si è sviluppata la celebrazione medioevale, negli incontri con gli usi liturgici dei Franchi e dei Germani. Tale incontro, però, non ha cambiato la struttura della Messa, ma in continuità dinamica o Tradizione l’ha solo integrata in un modo assolutamente rispettoso della sua fisionomia essenziale; infatti, conservando il medesimo impianto rituale, alle parti del canto dell’Introito, dell’Offertorio e della Comunione si sono sovrapposti, per i soli ministri, nuovi gesti e preghiere (recitate sottovoce). In questo modo il rito si è conservato integro nella sua struttura e nello stesso tempo si è organicamente arricchito nel suo svolgimento.
Questo processo in continuità dinamica o Tradizione ha ricevuto la sua codificazione all’inizio dell’età moderna, con la pubblicazione del messale post-tridentino ad opera di san Pio V, nel quale risplendono tutti i valori ereditati dalla Tradizione precedente e contemporaneamente espressivi dello spirito della Controriforma: l’esaltazione della dimensione sacrificale della Messa, quindi del dogma della transustanziazione e della presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, e di conseguenza della sacralità o dimensione sacramentale del sacerdote quale ministro di Dio che agisce in Persona Christi. Così la celebrazione diviene il trionfo della fede nella vera Chiesa: i ministri rivestiti di splendidi paramenti e inseriti in una cornice architettonica sfarzosa (barocco), vengono trasfigurati in un’aura di sacralità e realizzano in una lingua misteriosa, spiegata dal Catechismo del Concilio di Trento, un rito splendido e complesso, reso ancor più grandioso dalla musica polifonica (Palestrina). C’è un limite nella memoria-presenza della convivialità della Cena, pure essenziale nel rito, cioè i fedeli non vengono incoraggiati da gesti di partecipazione e ministerialità laicale a vivere in unione ai ministri le azioni della liturgia, ma piuttosto a lasciarsi travolgere da questo dramma sacro e solenne, così da sentirsi interiormente confermati e nutriti nella fede e sollecitati enormemente alla devozione, soprattutto alla devozione dei misteri della salvezza che la liturgia attualizza e che essi memorizzano con la recita del rosario mariano. E questo può rappresentare un limite per una partecipazione organica. Ma questa liturgia, frutto di quindici secoli di continuità ed evoluzione dinamica, resta in vigore, con qualche adattamento ma senza sostanziali modifiche, sino al 1969 e, grazie a Giovanni Paolo II e soprattutto a Benedetto XVI, può essere celebrata anche oggi come forma straordinaria. “Ora, invece - annota Ratzinger in La mia vita, p. 114 -, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dai sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano essere tragiche. Come era avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell’introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti”. A partire dal Concilio di Trento sino al Concilio Vaticano II vi sono state sette edizioni del Missale romanum. Esse sono state promulgate dai papi: san Pio V (1570), Clemente VIII (1604), Urbano VIII (1634), Leone XIII (1884), san Pio X (1911), Benedetto XV (1920) e il beato Giovanni XXIII (1962),. Ma tutte si sono qualificate in continuità con quello che aveva fatto san Pio V. “Ma rimasi sbigottito - Joseph Ratzinger, La mia Vita…, p. 113 - per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale”.

Il motu proprio è un documento nell’ottica della continuità e della riconciliazione
Per comprenderlo occorre rifarsi al Discorso alla Curia Romana tenuto da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, quello in cui il Papa ha identificato la causa principale della crisi interna in atto nella Chiesa cioè l’interpretazione errata del Concilio Vaticano II: “due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro”. Due e non tre… Con questo discorso possiamo finalmente uscire dal modello ternario conservatori - progressisti - moderati che è anch’esso una lettura ideologica della vita della Chiesa. Il modello binario di Benedetto XVI è - come deve essere - puramente teologico. Il Motu proprio in questo contesto ha un significato che va ben al di là di un atto di carità ecumenica nei confronti di una minoranza, sebbene ci sia certamente anche quello. E’ molto più ampio: significa esemplarmente, con quella esemplarità che compete alla liturgia, la sconfessione dell’ermeneutica della rottura, come pure dell’ermeneutica continuità - discontinuità. Questo fatto fornisce anche a tutti coloro che si sentono in comunione con il Magistero nella sua opera conciliare di “riforma” un criterio interpretativo prezioso: il Motu proprio deve essere interpretato e quindi applicato e vissuto - in un’ottica di continuità e non di rottura. Non è una “rivincita” ma un approfondimento. Anche con quei teologi, con quei studiosi di liturgia che cercano di essere attuali al prezzo di anatemi perentoriamente scagliati contro l’intera storia della Chiesa, non si potrà certamente fare molta strada, né si potrà batterla a lungo.
Tutto ciò che mette in contrapposizione le due forme (ordinaria e straordinaria) di quello che il Papa definisce un unico rito romano porta acqua al mulino dell’ermeneutica della rottura, della discontinuità e non risponde all’intentio profonda dell’atto magisteriale. Certamente è legittimo - di per sé - fare confronti. Ma considerazioni del genere oggi risultano inopportune: non è il tempo e il momento per disquisizioni su quale sia la liturgia migliore. Una convivenza di forma ordinaria e straordinaria dello stesso rito - nel comune convincimento che tutte sono sacre e sante cioè sacramentali, in quanto dalla Chiesa recepite e proposte - può far del bene all’una (accentuazione conviviale) e all’altra (accentuazione sacrificale) e possa favorire una intelligente e non arbitraria “contaminazione”, il che andrebbe nel senso di quella “riforma della riforma” ormai da tanti auspicata come l’esito proprio e felice delle aspirazioni più profonde e vere del “movimento liturgico” e del rinnovamento alla luce della Sacrosanctum Concilium del Vaticano II.
La Summorum Pontificum può essere l’avvio a un “nuovo movimento liturgico”. Solo un movimento spirituale e culturale di vissuti fraterni di comunione ecclesiale e di vaste proporzioni può ridare alla liturgia - prendendo come “manifesto” proprio la costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium con i profondi commenti e sviluppi del Catechismo della Chiesa Cattolica e del suo Compendio - il suo ruolo di fonte e culmine della vita della Chiesa con tutta la bellezza e lo splendore che le competono di diritto. Così come molti si illusero nel 1970 che con un nuovo rito tutto fosse fatto, ora dobbiamo stare attenti a non pensare che adesso, con la possibilità di celebrare anche nel modo straordinario, tutto sia risolto. “Per la vita della Chiesa - Joseph Ratzinger, La mia vita…p.115 - è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene concepita “etsi Deus non daretur”: come se in essa non importasse più se Dio c’è o se ci parla e ascolta”.

Il valore della lingua latina
Anche in questo caso non si tratta di un’esclusiva, poiché anche la messa rinnovata del 1970, la forma pastoralmente ordinaria si può celebrare in latino, ma oggi lo si associa in modo particolare alla forma straordinaria, tanté che questa viene sbrigativamente chiamata proprio “la Messa in latino”. Purtroppo si constata la pressoché scomparsa nella liturgia di questa lingua. Ma questo è uno di quei “casi” di quella sfasatura tra il dettato del Concilio, la struttura autentica della Chiesa e certe risposte concrete di autoaffermazione, di genialità e creatività privata. La lingua liturgica non è affatto un aspetto secondario anche in rapporto alla continuità di tutto un patrimonio di fede. Il latino ha incarnato la preghiera della Chiesa occidentale per oltre milleseicento anni, veicolo e garante di una triplice unità:
- “unità di fede”, perché fissa e dà stabilità immutabile alle formule dottrinali di cui è intrisa la liturgia; al contrario, le lingue parlate sono in continua trasformazione, quindi richiedono anche per la liturgia periodici aggiornamenti, favorendo una certa instabilità;
- “unità nel tempo”, perché ci lega a tutti i fratelli nella fede che ci hanno preceduto in quasi duemila anni: per chi comprende l’inestimabile valore della continuità o Tradizione cioè il più grande strumento della comunicazione del vero nella vita della Chiesa, non può essere un fatto trascurabile il sapere di poter pregare con le stesse formule e con gli stessi canti con cui hanno pregato i cristiani dei primi secoli, i Padri della Chiesa, i popoli della cristianità medioevale, i fedeli dell’epoca moderna, e segnatamente i Martiri e i Santi di tutti i tempi, sino ai nostri nonni, cioè ai credenti dell’ultima generazione che ci ha preceduto, con la voglia di dare anche noi, adesso, il nostro contributo;
- “unità nello spazio”, perché permette a tutti i cattolici di ogni paese e continente di unirsi in una sola voce, raccolti presso l’altare, a qualunque latitudine essi si trovi; in questo modo è la Chiesa universale che prega per bocca dei suoi figli senza distinzione di razza e cultura; la medesima preghiera che si innalza da tutti i popoli, celebrando il medesimo Sacrificio nella stessa lingua, rinnovando il prodigio della prima Pentecoste. Questo risulterebbe particolarmente importante proprio nel nostro tempo di globalizzazione, epoca di grandi emigrazioni e quindi di pluralità cultrurale e linguistica all’interno di una stessa società: come sarebbe bello se i cattolici provenienti dall’Africa, o dall’Asia, o dall’America, potessero partecipare alla Messa in qualunque delle nostre chiese, insieme ai loro fratelli italiani, ritrovando in essa la medesima liturgia, con gli stessi canti e le stesse preghiere della loro patria. Questo è ciò che è avvenuto tra il XIX e il XX secolo ai nostri emigranti, partiti per il nord Europa e per l’America: si sentivano stranieri in tutto eccetto che in chiesa, perché là trovavano la stessa Messa, con gli stessi riti e le stesse millenarie parole, uguale a quella del paese appena lasciato.
Certo insieme a questi straordinari vantaggi, di grande attualità, occorre riconoscere che la lingua latina, non accessibile a tanti, può costituire anche un ostacolo non piccolo per la necessaria comprensione di quella parte della liturgia nella quale il Signore parla, ammaestra i suoi discepoli attraverso la testimonianza delle Sacre Scritture: nella forma straordinaria (1962) prevede l’1% dell’Antico Testamento, il 17% del Nuovo testamento, nella forma ordinaria prevede il 14% dell’Antico Testamento e il 71% del Nuovo Testamento. E’ dunque necessario, e la Summorum Pontificum lo prevede, che la liturgia della Parola si svolga nella lingua parlata, mentre la liturgia eucaristica, nella lingua latina con le sue caratteristiche di universali e sacralità immutabile.

Dodici articoli della nuova normativa
Esistono due soli usi del rito romano: la “forma ordinaria” con il Messale del 1970 - 2002 e la “forma straordinaria” con il Messale del 1962 (art.1). Nelle Messe senza concorso di popolo cioè fuori delle Messe di orario parrocchiali o comunque pubbliche ogni sacerdote di rito latino può usare liberamente il Messale del 1962 (art. 2). La precisazione “il sacerdote non ha bisogno di nessun permesso, né della Sede Apostolica né del suo ordinario” esprime un reale mutamento rispetto alla normativa in vigore dal 1984: ciò che prima era una concessione o indulto, adesso è norma e qualunque fedele può accedere (art. 2 e 4). L’uso del Messale del 1962 non è però consentito “nel Triduo Sacro”. Nelle parrocchie in cui esiste “stabilmente” un gruppo di fedeli affezionati alla liturgia della forma straordinaria il parroco è pregato di concedere, una sola celebrazione la Domenica e le feste, nessuna limitazioni nei giorni feriali, ai sacerdoti “idonei”. Così per matrimoni, esequie e pellegrinaggi (art. 5). Se fedeli legati alla liturgia della forma straordinaria appartengono a diverse parrocchie, è prevista anche la possibilità - a prudente giudizio dell’ordinario - di una parrocchia personale (art. 10), con la possibilità di utilizzare il rituale più antico per il Battesimo, la Penitenza, il Matrimonio e l’unzione degli infermi. Tutto ciò, assieme alle altre norme che si possono leggere nel documento, aiuta a capire che se si configura un diritto dei fedeli, esso però deve essere vissuto non in un clima da “rivendicazione sindacale” ma nella prospettiva di bene comune della Chiesa e dell’ordine che ad esso intrinsecamente appartiene.
Per queste argomentazioni mi sono rifatto liberamente agli articoli di don Bruno Cantoni e di don Claudio Crescimanno su il Timone,pp. 36-41.

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