Vieni, Signore Gesù! Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi
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«Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, sena fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà thà! “Vieni, Signore Gesù!”, e preghiamo perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 12 novembre 2008].
La Pasqua, cioè il passaggio dalla morte alla vita di Gesù di Nazaret non è affatto un semplice ritorno al nostro vissuto terreno ma la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso che non riguarda solo Lui, ma con Lui fin dal Battesimo anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. In quella prima Domenica della storia nell’aprile dell’anno trenta, che riviviamo nella pasqua settimanale di ogni Domenica con l’incontro eucaristico con Lui convenendo fraternamente insieme in ogni parrocchia, si è aperta una nuova prospettiva, quella dell’attesa continua del ritorno del Signore, da ravvivare nella prima parte dell’Anno liturgico cioè nell’Avvento, e perciò ci porta a riflettere sul rapporto tra il tempo presente con gioie e doglie nel partorire la vita “veramente vita”, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo che accade continuamente là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge e si espande tra noi dandoci la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che per sua natura, è imperfetto, tempo della Chiesa e il futuro (éscaton) che ci attende, quando Cristo sempre presente tra i suoi per tutti e per tutto consegnerà il Regno al Padre (1 Cor 15,24): questa attesa del tempo terminale che vagamente intuiamo e, tuttavia, nell’intimo aspettiamo cioè la vita “veramente vita”, la ravviviamo nella prima parte dell’Avvento fino al 17 Dicembre per godere e prepararci nella seconda parte, al già del non ancora della presenza sacramentale del Verbo incarnato risorto di Natale e del tempo natalizio. Ogni discorso cristiano sulla meta, per non peccare e non essere tristi, quando il presente è faticoso, come quelli che non hanno speranza, sulle cose ultime del non ancora, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della risurrezione che ci fa rivivere tutta la fase terrena di Gesù per assimilarci a Lui, farci amare con il suo amore dato in dono dal Suo Spirito: in ogni avvenimento dell’incontro con la Persona di Gesù Cristo le cose ultime, il non ancora sono già, attraverso la preghiera e l’amore gratuito, incominciate e, in un certo senso, già presenti in ogni io che fonda la sua speranza in quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati fino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, rendendo possibili le beatitudini in tutti i vissuti facili e difficili, di gioia e di prova e perfino beati morendo in Lui.
Nuova e manifesta presenza, non del soccombere nella tentazione di un qualsiasi idolo nelle diverse ideologie sempre in agguato, di quel Dio che dal primo Natale possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme
Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di questo continuo ma soprattutto definitivo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e manifesta presenza (4,13 – 18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i loro problemi, l’Apostolo scrive così: “Se infatti crediamo che Gesù è morto ed è risorto, così anche (il Dio vivente, Padre, Figlio, Spirito Santo), per mezzo di Gesù (presente risorto), radunerà con lui coloro che sono morti” (4,14). E continua: “Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il Signore” (4,16-17). Paolo descrive la parusia cioè la attuale, nuova e definitiva, sacramentale, natalizia presenza del Signore in attesa di quella manifesta visibile a tutti alla fine dei tempi, con accenti quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio semplice e profondo di speranza affidabile nell’affrontare il presente anche quando è faticoso: alla fine saremo, cioè non da soli, sempre con il Signore. E’ questo, al di là delle immagini, il messaggio essenziale di quella meta così grande da giustificare la fatica del cammino: il nostro futuro, non certo solo individuale, è “essere con il Signore”; in quanto, credenti in vissuti di comunione fraterna autorevolmente guidata, nella nostra vita siamo già con il Signore; il nostro futuro, la vita eterna, là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge, è già cominciata. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per latri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.
L’attesa della definitiva e manifesta presenza di Gesù al compimento della storia non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire, circa la nostra fede non solo professata, celebrata, pregata ma vissuta, pensata in questo mondo.
Nella seconda Lettera ai Tessalocinesi Paolo cambia prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci in Lui, vi preghiamo fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo!” (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima dell’arrivo del Signore vi sarà l’apostasia e dovrà essere rivelato un non meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’, che la tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa lettera di san Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: “Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando in tranquillità” (3, 10-12). In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea nuova responsabilità davanti al Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la nostra responsabilità di lavorare in e per questo mondo. Nel Vangelo dei talenti il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa del ritorno, della venuta finale gloriosa implica la più grande responsabilità per questo mondo e nell’unione esistenziale con un “popolo” e può realizzarsi per ogni persona solo all’interno di questo “noi”. Essa presuppone, appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio “io” nel divenire “uno in Cristo” (Gal 3,28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento, perché solo nell’apertura a questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio.
Essere con Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita.
La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia – ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nella nostra vita appare in un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinché i vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno tra voi” (1,21-26). Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa indica infatti il completo essere con Cristo e così è beato di morire nel Signore. Ma Paolo partecipa anche dei sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per sé, ma per noi. Vivere per gli altri, diventa il programma della sua vita e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio ed è beato per quel che Dio deciderà. E’ disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva presenza e così per il rinnovamento del mondo. Questo suo essere con Cristo crea una grande libertà interiore: liberà davanti alla minaccia della morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita. E’ semplicemente disponibile per Dio e realmente libero. La prospettiva del Giudizio, già dai primissimi tempi, ha influenzato moltissimo i cristiani fin nella loro vita quotidiana come criterio secondo cui ordinare la vita presente, come richiamo alla loro coscienza e, al contempo, come speranza nella giustizia di Dio. La fede in Cristo non ha mai guardato solo indietro né mai solo verso l’alto, ma sempre anche in avanti verso l’ora della giustizia che il Signore aveva ripetutamente preannunciato Questo sguardo in avanti ha conferito al cristianesimo la sua importanza per il presente.
Quali sono gli atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alle cose ultime: la morte, la fine del mondo?
- Il primo atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col Padre, e proprio così è con noi, per sempre. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti,dei demoni, delle divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari, insieme a tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in questa gioia viviamo. Perfino la cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demoni portata dal cristianesimo. Certo se questa luce liberatrice di Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua tecnoscienza, il mondo contemporaneo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione: ci sono già i segni di questo ritorno di forze oscure, mentre crescono nel mondo secolarizzato i culti satanici e il demonio a buon mercato.
- In secondo luogo, la certezza che Cristo cioè Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme, è con noi (l’universalità, la cattolicità della salvezza), è con me (la decisione è personale). E come in Cristo il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, il mondo futuro di cieli nuovi e di terra nuova è già cominciato, questo dà anche certezza della speranza, è garanzia che esiste ciò che solo vagamente aspettiamo: la vita “veramente vita”. Il futuro non è un buio nel quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il futuro è buio, c’è tanta paura del futuro, non c’è speranza affidabile per poter affrontare un presente faticoso, non c’è alcuna meta sicura e grande da giustificare la fatica del cammino. Ma il cristiano sa, è consapevole che la luce di Cristo è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza affidabile che dà certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.
- Infine, il terzo atteggiamento. Il Giudice che ritorna – è giudice e salvatore insieme – ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo modo di vivere, lasciandoci assimilare a Lui, amare con il suo amore dato in dono dal suo Spirito. Ci ha consegnato i talenti perché li traffichiamo. Perciò il nostro terzo atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia: la moralità è una tensione, un tentare e ritentare con fiducia e speranza anche quando immediatamente non si riesce, con la possibilità di pentirci, di lasciarci riconciliare e di ricominciare e questo fino al momento terminale della vita per cui il male nelle tappe della fase terrena non ci definisce mai: Dio è giustizia e rende giusti, crea giustizia continuamente. E’ questa la nostra consolazione e la nostra speranza, poiché la sua giustizia, che ci fa cogliere sempre che cosa è bene e che cosa è male, è insieme anche grazia, perdono. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”: sull’infinitesimo margine della loro ignoranza costruiva morendo la loro difesa. Caratteristica della vera moralità cristiana è il desiderio della correzione – correggere vuol dire “reggersi insieme”, camminare insieme-, e il suo sintomo è l’assenza di scandalo. Un cristiano che vive la compagnia non si scandalizza di nulla, ha dolore: non sente lo scandalo, ma un grande dolore del male. Però non viviamo come se il bene e il male fossero uguali o perché Dio può essere solo misericordioso. La grazia, l’amore più grande di ogni peccato non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto. Non è una spugna che cancella tutto così, che quanto si è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore. Questo sarebbe un inganno, sarebbe il peggiore inganno. In realtà, viviamo in una grande responsabilità con conseguenze eterne. Che vale guadagnare il mondo intero se poi si finisce per perdere eternamente se stessi non desiderando più la verità, non essendo più disponibili all’amore, e arrivare a non avere più niente di rimediabile con la distruzione irrevocabile del proprio essere dono di Dio, del bene? Questo è l’inferno. Abbiamo i talenti, siamo incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato e ogni uomo lo incontri nella Chiesa per essere cristiano con un nuovo orizzonte e la direzione decisiva. Ma pur sapendo nella nostra responsabilità che Dio non è solo grazia, perdono che renderebbe irrilevante ciò che è terreno, ma è anche giudice vero, siamo anche sicuri che questo giudice è buono, non è pura giustizia che potrebbe alla fine per tutti noi essere solo motivo di paura, conosciamo il suo volto, il volto di Cristo risorto, del Cristo crocefisso per noi. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente giudizio, giustizia e grazia, perdono, che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza “con timore e tremore” (Fil 2,12). Ciononostante la grazia, il perdono consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro avvocato, parakletos (1 Gv 2,1). Perciò riconoscendo il male, pentendoci, lasciandoci conciliare possiamo essere sicuri della sua bontà e andare avanti con grande coraggio. C’è il rischio infernale,ma ci possono essere persone purissime, e tutti dobbiamo tendere a questa santità, persone che si sono lasciate interamente penetrare da Dio che possiede un volto umano e di conseguenza desiderose di verità, totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d’ora l’intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, questa apertura interiore è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al giudice? Se siamo rimasti saldi sul fondamento di Gesù Cristo e abbiamo tentato e ritentato di costruire su di esso la nostra vita, l’incontro con Lui attraverso la morte, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, di questa purificazione ultraterrena, in cui l’impuro e il malsano del nostro essere si rendono finalmente a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa “come attraverso il fuoco”. E’, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia, perdono: il nostro modo di vivere non è mai irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci definisce, non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi, in tensione morale verso Cristo, verso la verità e verso l’amore In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo e accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male del mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia.
Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo all’escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede, che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (Ef 2,6s): il dopo diventa un prima per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo. È tanto sicura e grande la meta da giustificare la fatica del cammino, da rendere tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque paragonabili alla gloria futura (Rm 8,18). Certo si cammina nella fede e non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o esulando da esso, è che si sia sempre più graditi a Lui (2 Cor 5, 7-9).
Nell’attesa del tua venuta sacramentale, del tuo ritorno glorioso: Maranà, thà! Signore nostro, vieni!
San Paolo alla conclusione della sua prima Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell’area palestinese: Maranà, thà! Che letteralmente significa “Signore nostro, vieni!” (16,22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si chiude con questa preghiera: “Signore, vieni!”. Possiamo anche noi pregare così? “Mi sembra – ha rilevato Benedetto XVI – che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perché venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: “Vieni, Signore Gesù!”. Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d’altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell’amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. E anche se in altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove c’è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi profughi, nel Darfur, nel Nord Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! “Vieni, Signore Gesù!”, e preghiamo perché Cristo sia realmente presente nel nostro mondo e lo rinnovi”.