Addio al celibato
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In questi giorni sui giornali sono apparse anticipazioni di una conversazione tra il cardinale Martini e don Luigi Verzé con il titolo ambiguo: porte aperte ai fedeli cattolici divorziati e risposati. Anche il celibato dei preti si può discutere. Inos Biffi, su L’Osservatore Romano del 29 maggio (p. 6) chiarisce come i “no” ai cattolici divorziati e risposati siano dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo e della donna come sono stati creati da Dio e ricreati in Cristo per una pastorale ininterrotta del matrimonio indissolubile.
Nessuno è escluso dall’amore di Cristo
L’unità e l’indissolubilità dell’amore coniugale e il modo verginale di amare “per il regno di Dio” presente là dove Egli è amato totalmente e dove il suo amore gratuito ci raggiunge rappresentano le due inattese e sorprendenti novità del Vangelo in un ambiente culturale non certo disponibile agli inizi come rischia di essere oggi in certi ambienti.
Annunciarle al mondo ebraico e soprattutto a quello pagano – sulla cui condotta abbiamo l’impressionante e realistica descrizione nel primo capitolo della lettera di Paolo ai Romani – significava proporre un orizzonte di nuova vita che portava a un rivolgimento inaudito e a un rinnovamento radicale.
La Chiesa, fedele alla Parola di Cristo, lo ha fatto dall’inizio, a partire non da un dialogo delle culture, che sarebbero state sorde e non avrebbero capito, ma da tre fondamentali persuasioni:
- la prima, che quelle novità traducevano il disegno amoroso di Dio su ogni uomo e attuavano una compiuta promozione umana;
- la seconda, che la trasmissione di quel Vangelo rappresentava un compito permanente e non volubile della predicazione cristiana;
- terzo, che quelle novità erano accompagnate dal dono più intimo del Risorto, lo Spirito Santo, la grazia, che sa toccare e convertire il cuore di ogni uomo.
Indissolubilità del matrimonio cristiano di fronte alla prassi del divorzio
L’affermazione di Cristo è perentoria e inequivocabile: il ripudio legittimato nel mondo ebraico era stato una condiscendenza alla “durezza del cuore”, ma era contrario all’originario disegno di Dio sull’uomo e sulla donna: “All’inizio non fu così” (Mt 19,8). Nel progetto del Creatore e quindi secondo natura l’uomo e la donna nel matrimonio sono destinati a formare “una sola carne”, per cui l’uomo non deve dividere quello che Dio ha congiunto. Di conseguenza – richiama Gesù – “chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19,9). E vale sia per l’uomo e sia per la donna: “se questa, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,12).
Nelle attuali discussioni, vivaci e non raramente confuse anche tra cattolici, il primo punto, che importa richiamare senza incertezze, riguarda precisamente questa indissolubilità. Deve, cioè emergere che il divorzio, cioè il risposarsi, contrasta con la volontà di Gesù e che esso non corrisponde al progetto divino o alla ragione, al bene per i quali sono stati creati l’uomo e la donna. In altre parole, un matrimonio dissolubile contraddice e infrange quel disegno “iniziale” al quale Cristo ha inteso ricondurre perentoriamente chi scelga di essere suo discepolo. Certo Dio dal volto umano, che è Amore, non può costringere perché un rapporto costretto non sarebbe un rapporto di amore e uno è libero di non diventare discepolo di Cristo ma, se vuole divenirlo, non può concepire un proprio e differente modello di sponsalità.
Ciò che oggi appare più grave e preoccupante non sono, tuttavia, dei comportamenti di infedeltà, ma la pretesa di una professione cristiana, di una fede celebrata con la comunione eucaristica che si accompagni con l’annebbiamento o la contestazione relativa al tassativo principio dell’indissolubilità del matrimonio, nella persuasione che un tale allentamento di tale indissolubilità sia addirittura segno da parte della Chiesa di maggiore umanità, rispetto ad una concezione – quella stessa di Cristo – che sarebbe troppo severa e immesericordiosa.
Certo l’indissolubilità del matrimonio non è compiutamente comprensibile fuori dall’incontro con la Persona di Gesù Cristo cioè dell’esser cristiani; essa suscita istintivamente sorpresa e reazione. Del resto, alla sua proposizione da parte di Cristo i discepoli non mancarono di reagire: “Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10). Ma non per questo egli e quindi la Chiesa può cambiare il suo progetto. In ogni caso, l’essere “una sola carne” è il suggello che contrassegna ogni unione sponsale del cristiano, cioè del credente, il quale la considera secondo il giudizio di Cristo e quindi secondo la sensibilità della fede professata, celebrata, vissuta, pregata. Al declinare della fede non stupisce che succeda fatalmente anche il rigetto di questa prerogativa del matrimonio, strettamente connesso con il contenuto del Credo cristiano.
La prima pastorale della Chiesa verso i divorziati – ossia i cristiani validamente sposati che hanno contratto un altro vincolo coniugale – e la prima comprensione verso quanti hanno sinceramente a cuore la loro fede cristiana non può consistere in una giustificazione del divorzio, ma all’opposto, deve richiamare e far comprendere, con una attenzione illuminata, innanzitutto il valore dell’indissolubilità. Questo non vuol dire indifferenza di fronte a situazioni non di rado estremamente complesse, soprattutto quando al divorzio sia seguita la formazione di altri nuclei familiari, con la presenza di figli, che hanno diritto di avere e di sentire vicini il papà e la mamma.
Una sapiente attenzione a tali situazioni saprà sostenere, consigliare e anche confortare, con prudente e delicato discernimento, e con soluzioni variabili a seconda dei casi e dell’età, lasciando a Dio il giudizio sulle singole responsabilità: una grossolana durezza o uno sbrigativo trattamento non sono mai evangelici, come non lo è l’insensibilità a tante sofferenze che spesso si trovano in matrimoni venuti meno.
Ma in tutto questo dovrà sempre risaltare senza esitazione il matrimonio indissolubile come il solo conforme al Vangelo, e di conseguenza la scelta e lo stato di divorzio come scelta e stato, dal profilo cristiano ed ecclesiale, anomali, in se stessi affatto difformi dal disegno sponsale voluto da Dio e rivelato da Gesù Cristo. In sintesi, la via irrinunciabile per il risanamento in senso cristiano del matrimonio è di ribadire l’indissolubilità e di richiamare il Vangelo.
Occorre comprendere e far comprendere che l’indissolubilità non è una pura proibizione e costrizione ecclesiastica, ma un “sì” al grande amore
L’apostolo Paolo insegna che l’”essere una sola carne” dell’”inizio” prefigurava anticipava il mistero della sponsalità stessa di Dio che nell’incarnazione si unisce in qualche modo ad ogni uomo, della sponsalità del Crocefisso risorto nei confronti del suo Corpo che è la Chiesa (Efesini 5,31-32). Il matrimonio, nella sua divina progettazione, fu subito una profezia e un anticipo di questo legame di amore per la Chiesa, che Gesù ha consumato sulla Croce e che è destinato a segnare lo stato sponsale dei suoi discepoli. Anzi, lo stesso matrimonio non cristiano – o naturale, come si dice, che ha la sua validità e il suo valore – è in condizione di incompiutezza, di sofferenza e di obiettiva aspirazione, fin che non si converta e non si risolva nel matrimonio che Cristo ha definito come appartenente alla sua fondazione divina “iniziale”. Solo che per questo sono necessarie la fede per accoglierlo e la grazia, che è mediata dal sacramento, per viverlo.
Oggi è motivo di animate discussioni la comunione ai divorziati risposati
Ma, per comprendere i termini della questione, importa anzitutto mettere in luce il valore sia della comunione eucaristica sia dell’appartenenza alla Chiesa, ed è proprio quanto ci sembra sia largamente disatteso e assente sia nella considerazione dei fedeli sia anche talora in quella dei pastori, che invece per primi dovrebbero farne oggetto di riflessione. La comunione eucaristica non consiste in un semplice conforto religioso, in una specie di gratificazione spirituale, o in una iniziativa lasciata al singolo cristiano, che certamente non cessa , anche se divorziato, di far parte della Chiesa, o in un diritto da lui rivendicabile.
Da un lato, la comunione eucaristica rappresenta la più intima unione con il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, la sua assunzione sacramentale (cioè reale), il pieno consenso alla sua volontà, il compimento e la perfezione del rapporto con Lui.
Dall’altro lato, la condizione del divorziato – da distinguere nettamente dalla colpa dell’infedeltà, che può essere perdonata come ogni peccato – dice uno stato di evidente contrasto rispetto al piano divino di matrimonio da Lui rivelato e voluto per i suoi discepoli e in cui l’indissolubilità è intrinsecamente inclusa. E’ esattamente questa antinomia, questa contraddizione tra la condizione del divorziato e il contenuto dell’Eucaristia che deve essere anzitutto rilevata. Ma anche il valore e il significato dell’appartenenza ecclesiale sono abitualmente trascurati nella questione della comunione ai divorziati.
La partecipazione alla mensa eucaristica comporta e manifesta il proprio essere pienamente nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa. Eucaristia e Chiesa si implicano reciprocamente: ecco perché l’intercomunione tra confessioni non è vera.
Vanno al riguardo, ribadite con chiarezza due cose:
- la prima: il divorziato non si trova escluso dalla Chiesa, non solo perché la Chiesa in varie forme lo prende a cuore e prega per lui, ma anche perché lui stesso è chiamato a pregare, anzi a prendere parte all’orazione della Chiesa nell’assemblea liturgica almeno della Domenica.
- La seconda: a motivo del divorzio, per altro oggetto di una sua libera scelta, il divorziato risposato si trova in una situazione ecclesialmente ed eucaristicamente dissonante. Né si deve stupire che si affermi, per un verso, che non si deve tralasciare l’assemblea eucaristica senza che, per altro verso, riceva il Corpo e il Sangue del Signore. La tradizione della Chiesa conosce queste forme ridotte di partecipazione: i catecumeni, per esempio, non partecipavano a tutta la celebrazione; la categoria dei penitenti a sua volta si asteneva, in attesa che, compiuto l’itinerario penitenziale, ricevendo l’Eucaristia rientrassero in piena comunione con la Chiesa. Vi è poi la comunione spirituale, ossia di desiderio, oggi assai trascurata e quasi resa insignificante, ma a cui san Tommaso riconosceva una grandissima efficacia per il raggiungimento dello stesso frutto ultimo dell’Eucaristia.
La non ammissione alla comunione sacramentale tiene viva nella coscienza della Chiesa che il divorzio è in contrasto radicale con l’immagine che Cristo ha del matrimonio; che l’ammorbidirne la radicalità è la via sbagliata per restaurare questa immagine e rinnovare in senso evangelico la famiglia. E, d’altronde, a nessuno, nella misura della sua buona volontà, è lasciata mancare la grazia della misericordia e della salvezza. Non si tratta di essere convenzionali o anticonvenzionali, ma semplicemente di sapere che cos’è per un cristiano l’Eucaristia, la quale non è un bene o una proprietà di cui il sacerdote possa disporre.
L’atteggiamento della Chiesa è chiaramente espresso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, in una Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica: i divorziati che si sono risposati civilmente “si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la legge di Dio e perciò non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione”.
Questa norma non ha affatto un carattere punitivo o comunque discriminatorio verso i divorziati risposati, ma esprime piuttosto una situazione oggettiva che rende di per sé impossibile l’accesso alla Comunione eucaristica: “Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale; se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. Ricevere la Comunione eucaristica in contrasto con le norme della comunione ecclesiale è quindi una cosa in sé contraddittoria. La comunione sacramentale con Cristo include e presuppone l’osservanza, anche se talvolta difficile, dell’ordinamento della comunione ecclesiale, e non può essere retta e fruttifera se il fedele, volendo accostarsi direttamente a Cristo, non rispetta questo ordinamento” (Familiaris consortio).
Al Clero di Aosta, il 25 luglio 2005, Benedetto XVI diceva.
“Partecipare all’Eucaristia senza comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre essere coinvolti nel mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. E’ sempre partecipazione al grande Sacramento nella dimensione spirituale e pneumatica; nella dimensione anche ecclesiale se non direttamente sacramentale… Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi dal grande mistero dell’Eucaristia, dall’amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra importante, come è importante che il parroco e la comunità parrocchiale facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo rispettare l’inscindibilità del Sacramento e, dall’altra parte, che amiamo queste persone che soffrono anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con loro, perché danno una testimonianza importante, perché sappiamo che nel momento in cui si cede per amore si fa torto al Sacramento e l’indissolubilità appare sempre meno vera”.