L'Osservatore Romano parla di noi
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L’Osservatore Romano
n. 292 del 22 dicembre 2007 p. 5
Come ritrovarsi in un’opera d'arte
Tutta la vita di Michela in un quadro di Klimt
«Dio, tu che ti nascondi nelle nubi, o dietro la casa del calzolaio, fa che si riveli la mia anima, l’anima dolente di un ragazzo che balbetta, rivela il mio cammino. Non vorrei essere come tutti gli altri; voglio vedere un mondo nuovo». Questa preghiera di Marc Chagall può ben riassumere il cuore del libro «Volti e stupore, uomini feriti dalla bellezza» (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2007, pagine 123, euro 20) un dialogo a due voci - anzi, a tre voci, considerando anche la bella prefazione di Magdi Allam - tra Fabio Cavallari, giornalista, e Maria Gloria Riva, suora di clausura, capace di allenare lo sguardo di chi legge a bucare l’apparenza e raggiungere il cuore vivo e pulsante della realtà di tutti i giorni, e scoprire che il lavoro, la casa, gli affetti familiari hanno la stessa dignità, lo stesso fascino, lo stesso spessore misterioso della grande arte. Se non ce ne accorgiamo è solo perché, anestetizzati dalla fretta, dall'ansia, dalla scontatezza apparente del quotidiano, non siamo abbastanza «bambini» per vedere le cose nella loro verità e lasciarci ferire dalla loro bellezza.
Esperta d' arte, studiosa della Sacra Scrittura, suor Gloria descrive quadri a volte poco conosciuti, a volte famosissimi, come i capolavori di Klimt, Goya, Van Gogh riprodotti in milioni di poster, agende, magliette, rivelando una profonda densità di significato che nemmeno la riproduzione seriale riesce ad appiattire.
Un esempio: la storia di Michela, che per amore del bambino che porta in grembo esce dalla schiavitù della droga e cambia radicalmente la sua vita, nella lettura di suor Gloria, arricchita dalla profondità che regala la preghiera, getta luce sul misterioso fascino delle «Tre età della vita» del pittore viennese.
«Caro Fabio - scrive Suor Gloria rispondendo a Fabio Cavallari - ho davanti a me la tua lettera (...) la tela si intitola Le tre età , ma ciò che offre allo sguardo è qualcosa di molto più profondo di una semplice istantanea sulle generazioni. La tua Michela me la figuro così, come questa scarna e pallida giovane donna di Klimt. Pare una velina nelle tracce dell’abito che adornano le gambe e nell’acconciatura, eppure la sua nudità ha un non so che di verginale, di fanciullesco. È la stessa sensazione che ho provato leggendo il tuo racconto. Perché, mi sono chiesta? Come può una madre, e una madre con un tale passato, suggerire così prepotentemente l’immagine della verginità? Anche questa donna, come Michela, è inequivocabilmente una madre: a guardarla bene tutto di lei è proteso verso la creatura che regge tra le braccia. Quella bimba è il suo vestito, è il punto di appoggio del suo capo, è la ragione ultima del suo stare in piedi. Un corpo così scarno, infatti, sembrerebbe poter crollare da un momento all’altro se non avesse una ragione Altra, una ragione che la droga non può dare, dal momento che nella sua ingordigia consuma ogni ragione. Vedi? Parlo della donna di Klimt e vedo Michela. E ora, parlando con te, ne comprendo il perché. La verginità sta nel dono.
Questa donna è madre, ma il dono totale e senza ritorno che fa di sé alla vita, alla sua bimba, la fa risplendere di verginità. Non vedi anche tu, ora, Michela come in filigrana? Lei che aveva perduto nella droga. Come potrebbe avere questa forza, la vita, se non sorgesse da Altro da noi? Un Altro che però ci è così vicino da poter star rinchiuso nella parola più usata (e ahimé abusata) che si conosca: Amore.
Sulla scorta di questi pensieri non mi pare più semplicemente un’anziana la figura che sta accanto alla nostra “Michela klimtiana”. Sta, infatti, sullo sfondo come lo spettro di un passato, più che come l’inesorabile approdo del futuro. Tanto la giovane donna è pacificata nel dono di sé, così quest' altra appare disperata nel suo gesto, nel suo grembo apparentemente gravido, ma in realtà avvolto da una dolorosa solitudine».
Un quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo può descrivere la vita di Paolo, un uomo semplice che accetta di condividere i bisogni dei suoi colleghi e li aiuta concretamente, ma anche la statura umana di «quelli che si interrogano sul destino, che si spingono oltre i confini del loro sentiero per gettare di tanto in tanto uno sguardo alla meta» come scrive suor Gloria rispondendo alla lettera di Fabio Cavallari. L’opposto della celebrazione delle «magnifiche sorti e progressive» che, probabilmente, si prefiggeva l’autore. «A me la vicenda di Paolo nella sua fabbrica - scrive Suor Gloria - ha ricordato un’altra tela del Pellizza, meno scontata, meno nota: Lo specchio della vita.
Un gregge di pecore avanza quietamente lungo un sentiero che taglia orizzontalmente la tela. Queste pecore sono, nell’intento dell’artista, la parabola dell’umanità diretta verso il progresso. L’armonia di linee vuole trasmettere, come egli stesso esplicita, “una certa quiete dello spirito”, e indurre a “comporre l’anima a grande serenità davanti all’alternarsi del bene e del male, delle gioie e dei dolori della vita”. Giuseppe Pellizza fornisce la tela persino di una cornice dipinta che, con l’andamento ondulato della venatura del legno, aumenta magistralmente la sensazione del moto inarrestabile, vasto, e al tempo stesso quieto, del progredire dell’uomo. Ma il progresso, come l’onda, come la zona paludosa in cui il gregge si specchia, non è rettilineo, bensì composto di pieni e di vuoti, di avanzamenti e di regressi, di successi e sconfitte.
Un versetto della Divina Commedia ha ispirato l’artista nella realizzazione di un tal soggetto «ciò che l’una fa e l’altre fanno» (Purgatorio, III). Come le pecore, così l’umanità è spesso inconsapevolmente trasportata dal flusso del tempo e da un destino che a tratti pare soverchiarla. Pare, ma non è così, anche Paolo lo sa.
Paolo che deve fare i conti con quanti guardano solo al passo fatto oggi, senza curarsi della meta, dell’orizzonte vasto che li accoglie, che li aspetta. Basta un solo uomo che si riempia il cuore di consapevolezza perché anche gli altri ne siano beneficiati. E questo uomo c’è sempre, a ogni latitudine e in ogni cultura.
Anche nella tela di Pellizza c’è una pecora che si distingue dalle altre. Sembra nera tanto è in ombra, in realtà è solo diversa. Volutamente diversa. Questa pecora cammina sola, non sta né con le prime né con le ultime. Non abbassa come le altre il muso verso il suolo, né guarda la compagna che la precede, ma appare pensosa, con lo sguardo dritto davanti a sé.
Questa pecora, Fabio, incarna quella parte di umanità simile a Paolo. Quelli cioè che si interrogano sul destino, che si spingono oltre i confini del loro sentiero per gettare di tanto in tanto uno sguardo alla meta. In questa pecora si nasconde la cifra degli intercessori, quelli che, come Paolo, sono in grado di stare tra i contrasti della vita proprio perché tengono alta davanti a sé la certezza di un disegno buono. In questa cifra ogni ideologia è annientata, gli «ismi» dissolti, qui c’è l’uomo, quello vero, quello capace di umanità, perché in fondo capace di Dio. A sua immagine».
Nella prefazione Magdi Allam scrive «Sono rimasto semplicemente incantato dalle storie di vita raccontate in questo libro. Vita che emoziona, affascina, sconvolge, convince. Ma che in ogni caso non ci lascia indifferenti. Ci fa comprendere l’orrore del nichilismo che nega la Vita, la calamità del relativismo che viola la sacralità della vita e l’immagina come un valore su cui si può mercanteggiare a seconda dell’identità del carnefice e delle vittime».