Verso l’eutanasia: un percorso in atto da tempo con gravi conseguenze
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Il percorso giudiziario e legislativo che sta proponendo in Italia l’eutanasia è in corso ormai da anni; abbiamo assistito a diversi casi eclatanti, ultimo nel febbraio 2017 il caso di Marco Cappato che accompagna Fabiano Antoniani detto Dj Fabo, un uomo rimasto tetraplegico e non vedente in seguito a incidente stradale, da Milano a Zurigo (Svizzera) per l'ottenimento dell'assistenza alla morte volontaria nella clinica Dignitas, dove si pratica il suicidio assistito.
Quello che sembra l’ultimo tassello di questo percorso per introdurre l’eutanasia in Italia è la raccolta firme promossa dal Partito radicale per chiedere un referendum che in maniera esplicita autorizzi l’eutanasia. Emblematico che in questi giorni Mario Riccio, il medico che aiutò Piergiorgio Welby e per questo fu processato e prosciolto, si sia espresso a favore del referendum chiudendo idealmente un percorso: “Io credo nel dovere morale del medico di portare a morte un paziente”.
Un passo importante è stata anche la legge 219/2017 sul fine vita; infatti, contempla l’ipotesi eutanasica imponendo al medico, anche con una azione positiva, di interrompere il funzionamento di dispositivi vitali per la sopravvivenza del malato (inclusi respirazione, nutrizione ed idratazione artificiali). Il quadro diventa ancora più preoccupante per gli incapaci ed i minorenni, nel timore che i criteri ai quali ancorare l’interruzione di trattamenti salvavita (purtroppo ammessa dalla Corte Costituzionale) facciano riferimento alla qualità della vita, introducendo, pertanto, una disumana discriminazione nei loro confronti, bambini o gravi disabili che siano.
Nessuna legge può decidere della qualità della vita che non c’entra solo con lo stato fisico, è un parametro personale che comprende serenità, amore, ideali, scopi, futuro, progetti, legami. Persone sanissime fisicamente sono molto più depresse e demotivate di alcuni malati.
Il caso dei tentativi di suicidio di persone sane dovrebbe farci pensare; infatti, chi tenta il suicidio considera che la sua vita non valga più e spesso è spinto dalla depressione, ma non per questo noi facilitiamo i suicidi; cerchiamo invece di far riscoprire il valore della vita e per legge l’aiuto al suicidio è ancora un reato.
A inizio febbraio 2020 la Federazione degli Ordini dei medici italiana Fnomceo ha aggiornato il codice deontologico dopo la sentenza della Consulta su Dj Fabo scrivendo che il medico che aiuta a morire un paziente che sceglie liberamente il suicidio assistito non è più punibile dal punto di vista deontologico dall'Ordine dei medici. La Fnomceo dichiara: «Abbiamo scelto di allineare anche la punibilità disciplinare a quella penale in modo da lasciare libertà ai colleghi di agire secondo la legge e la loro coscienza». Una posizione che sorprende visto che il ruolo del medico è quello di curare, ma la sentenza Cappato purtroppo ha aperto a prospettive nuove e pericolose e questo è un primo effetto. Un secondo effetto si è avuto ad agosto 2021 quando per la prima volta in Italia il tribunale di Ancona in merito al caso di un 43enne tetraplegico, ha obbligato l’azienda sanitaria locale (Asur) ad aprire un percorso sanitario al fine di verificare se sussistano i requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale nel 2019 (per l’appunto, la sentenza Cappato sul caso Dj Fabo) affinché possa andare in Svizzera a morire. Purtroppo, ne ha approfittato il Ministro della salute Speranza che ha scritto una lettera in cui invita le ASL ad applicare il suicidio assistito; il ministro ha ribadito che è “personalmente convinto da tempo della necessità e dell’urgenza di un intervento legislativo in materia”. Speranza: un ministro della Sanità che invece di preoccuparsi di come prendersi cura delle persone si preoccupa di come porre fine alla loro vita, la dice tutta sul clima culturale che sta dietro a queste proposte di leggi che lo stesso ministro auspica.
Eppure per i medici il riferimento dovrebbe essere la World Medical Association (Wma) che afferma la propria contrarietà verso eutanasia e suicidio assistito. Una posizione ribadita nel documento a conclusione della Assemblea annuale dell'Associazione svoltasi a Tbilisi in Georgia nel 2019: "Nessun medico dovrebbe essere forzato a prendere parte a procedure di eutanasia o suicidio assistito né essere obbligato a prendere decisioni di rinvio a tal fine", la Wma conferma di essere “fermamente contraria all’eutanasia e al suicidio medicalmente assistito”.
L’eutanasia modifica il rapporto, o meglio l’alleanza medico paziente. Il medico è un semplice esecutore di volontà? Come considererà un paziente un medico che ha praticato eutanasia, si fiderà ancora del suo giudizio medico? E se si decide che per alcune malattie “la soluzione” è l’eutanasia chi investirà più nella ricerca delle cure? Domande che dobbiamo farci quando parliamo di queste tematiche.
Chiara è la posizione della Chiesa Cattolica espressa da Papa Francesco nel suo documento del 2020, il Messaggio per la 28a Giornata Mondiale del Malato: "Cari operatori sanitari, ogni intervento diagnostico, preventivo, terapeutico, di ricerca, cura e riabilitazione è rivolto alla persona malata, dove il sostantivo 'persona', viene sempre prima dell'aggettivo 'malata'". Pertanto continua Papa Francesco, "il vostro agire sia costantemente proteso alla dignità e alla vita della persona, senza alcun cedimento ad atti di natura eutanasica, di suicidio assistito o soppressione della vita, nemmeno quando lo stato della malattia è irreversibile".
Come non ricordare per un cristiano la parabola del Buon Samaritano il quale, passando accanto a un uomo lasciato mezzo morto dai briganti sul ciglio della strada, "vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»" (Lc 10, 33-35). Nell’Enciclica “Spe salvi” Benedetto XVI richiamava il senso della sofferenza per un cristiano: "non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l'uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l'unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore" (n. 37).
Ma la difesa della vita non è solo un principio cristiano, l’eutanasia non è una scelta di libertà ma una scelta utilitaristica che spezza ogni legame. Il tema dei legami è un tema che spesso viene trascurato rispetto all’autodeterminazione. Il legame presuppone che le persone coinvolte siano più di una e dice di una relazione; l’assolutizzazione dell’autodeterminazione presuppone invece la preminenza di un individualismo che esclude relazioni, quasi un’autosufficienza, privando le persone care o i medici del diritto/dovere di instaurare un rapporto di dialogo e vicinanza col malato, rendendo più solo il malato e privandolo quindi in definitiva della possibilità di pensare la malattia anche come un tempo di relazione. E’ fuorviante contrapporre il diritto alla vita al diritto alla libertà. La libertà è un punto essenziale e irrinunciabile, ma non è la libertà intesa nel senso che “se non faccio del male agli altri allora posso fare qualsiasi cosa”, è la libertà di amare e di essere amato. La libertà non è fine a se stessa, oggi bisogna riscoprirne il senso vero: libertà è una dote intrinseca all’uomo, la libertà di scelta è e deve essere la libertà per il bene, è libertà con gli altri cioè relazione.
Papa Francesco lo ricorda bene: “La pratica dell’eutanasia, divenuta legale già in diversi Stati, solo apparentemente si propone di incentivare la libertà personale; in realtà essa si basa su una visione utilitaristica della persona, la quale diventa inutile o può essere equiparata a un costo, se dal punto di vista medico non ha speranze di miglioramento o non può più evitare il dolore. Al contrario, l’impegno nell’accompagnare il malato e i suoi cari in tutte le fasi del decorso, tentando di alleviarne le sofferenze mediante la palliazione, oppure offrendo un ambiente familiare negli hospice, sempre più numerosi, contribuisce a creare una cultura e delle prassi più attente al valore di ogni persona”.