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Walter Angelici a Urbino

Fonte:
CulturaCattolica.it

Urbino, città d’arte e, in Urbino, accanto al Duomo fulcro della vita e della pietà del fedele urbinate, l’oratorio delle Grotte, dove pietra e arte cantano la gloria del Bellissimo.
Qui, nell’oratorio, si apre in questi giorni uno spazio scenico diverso e nuovo, un’arte elegante e nel contempo forte, aggressiva, vera.
Un nome: Walter Angelici, artista schivo, non noto ai più, ma di grande spessore umano e spirituale. Non un credente, ma un ricercatore di verità, appassionato della vita, con le sue domande, il suo sgomento, le sue attese e le sue lacrime. Un uomo.
E non si fatica a capire la qualità artistica e umana di Walter non appena ti imbatti nella sua Natività. Un cielo turchino, angoloso e morbido insieme, gravido di Mistero: il manto della Vergine, occupa tre quarti della tela. La terra resta la sullo sfondo come cornice dell’evento, come teatro che accoglie l’incomprensibile. Ma tu, spettatore che guardi, sei avvertito fin dal primo sguardo che non sei fatto per quella terra. Sei destinato al Cielo. Un Cielo non lontano, o infinito, o inconoscibile, ma un Cielo eterno, caldo e avvolgente, dove vive l’Amore. Nel manto di Maria, si apre uno squarcio pieno di luce: il volto della Madre e del Figlio uniti nel dono totale di loro stessi all’Uomo. Nel viso di Lei, dal sapore Klimtiano, s’indovina lo struggimento e il dolore e finanche la pace, che accompagnano il gesto di offrire quel figlio, il quale, già nel primo vagito, rivela il grido del crocefisso.
Sangue e Cielo si fondono insieme. Sì, nulla va perduto, il grido delle Madri, la sofferenza innocente, il desiderio di infinito, tutto si raccoglie mescolandosi, come nell’abito di Maria tinto di rosso e d’azzurro.
È Cristo nel suo Mistero che raccoglie il dolore del mondo. Lo annunciano inequivocabilmente le drammatiche tele successive, la Crocifissione e il Compianto.
Nella crocifissione Cristo non ha volto, né sesso. Ritroviamo in questa tela il gioco del rosso e dei blu. Cristo stesso è blu, trasfigurato dalla luce bianca della vita, che già palpita in Lui. È il crocifisso risorto, le cui braccia sforano la tela, raggiungendo il Cielo, ma le cui gambe continuano a camminare sulla terra degli uomini.
Il corpo del Salvatore è come avvolto da due ali, sembrano un riflesso del suo corpo stesso, sembrano le ali dello Spirito Santo che, uscito da Lui, da quel corpo crocifisso, riempie il mondo di grazia. Un’ala sullo sfondo è azzurrina, l’altra è una fiamma di sangue che ferisce e insieme consola. Qui è il centro del quadro. Dove palpita il ventre di quest’uomo senza sesso, né genere. Il genere di Cristo è inscritto nelle due ali: è il genere nuovo dei sofferenti e degli speranzosi. Un’alba attende sempre coloro che si lasciano declinare da questi due generi. Un’alba di luce calda, come lo squarcio di sole che rompe l’oscurità della tela e che già timidamente “cola” rigando di luce ogni tenebra.
Nel Compianto poi, tre angeli d’ombra, le pie donne, ricordano gli angeli di Rublev nella celebre Trinità, paiono il negativo degli angeli rossi di Chagall nella tela di Nizza del Museo Biblico. Tre angeli, che alzate le braccia al cielo (e che come quelle del crocifisso forano la tela raggiungendo Dio) gridano silenziose il dramma umano.
L’amore, cioè il Corpo del Salvatore, è stato morso dal Male. Così pare, a prima vista almeno. Poi però, non appena ti soffermi, vincendo la ritrosia a fissare quel terribile morso, ti accorgi dell’altare che accoglie il corpo di Cristo, ti accorgi che l’oscurità che circonda non è tenebra di dolore, ma la cortina che avvolge il Mistero. questo corpo è cibo. Questo corpo è pane per la fame dell’uomo solo, ferito dal desiderio della vita che non muore. Allora, e solo allora, riconosci che le tre donne sullo sfondo hanno il volto lieto. Senza occhi, ma lieto. Hanno le mani sollevate dal grido: Venite: ecco l’Agnello di Dio che sazia l’uomo affamato di una pasqua eterna.
Questa Pasqua si rivela nella Risurrezione. La radice di Davide, il germoglio d’Israele, promesso da secoli eterni, sale dalla terra come albero della vita. È ancora imprigionato nel sudario ma, semplicemente, come crisalide che sta per lasciare il suo involucro e librarsi in volo. È un attimo. E mentre lo sguardo accompagna il corpo e giunge al volto, lo vedi salire, vedi realizzarsi questo volo liberante nei raggi verdi di vita che accarezzano e risucchiano insieme, il volto maestoso, senza età e, ancora una volta senza sesso, del Cristo.
Che bella questa pace che non dimentica il dolore e il peso dei giorni, ma li porta con se e li sublima, rendendoli promessa di un compimento eterno e insperato!
La forza espressiva dell’Angelici non è tuttavia affidata solo alla gamma cromatica, ai blu e ai verdi, ai rossi improvvisi e bizzarri. Non è solo nell’impasto denso del colore, simile a quello di certo espressionismo tedesco, è dentro l’animo dell’artista e traspare dentro ogni tecnica usata. Non è indolore, per chi visita la mostra, passare dalla forza cromatica delle tele, al segno graffiante delle incisioni. Non è indolore, ma sorprende.
I temi trattati: la maternità di uomini e animali, case abbandonate, la cecità, il grido delle vittime ferite, ricamano un contrappunto di luci e ombre, di dolore e di speranza, esattamente come nei lavori ad olio.
Di fronte ad ogni incisione non si può rimanere indifferente.
In Madre e figlio, ad esempio, il bimbo non riposa nel grembo della Madre, ma è come rovesciato, con occhi grandi e imploranti e sulle labbra il grido del dolore. È ancora il Figlio dell’offerta in braccio a una Madre muta, silenziosa, granitica nel suo dolore che ostende. Eppure se l’osservi in volto la scopri dolce, appena appena china sul bimbo e ti guarda senza occhi, recando sul capo la corona della vittoria.
Nulla davvero va perduto e il grido dell’uomo, che ti pare di ascoltare drammatico e intenso nell’acquaforte dal titolo “I ciechi”, trova una risposta ne “Il grido”. Un’altra acquaforte in cui, ancora una volta, le braccia della vittima sfondano i confini dello spazio espressivo e sembrano abbracciarti, avvolgerti, rassicurarti. Quest’uomo che grida, infatti è tutto braccia. Il suo volto è interamente risucchiato dal suo grido, un grido che nasce dalle viscere sconvolte dal dolore. Pur tuttavia il corpo è nella luce. Promessa di risposta.
Il duplice registro di dolore e di speranza attraversa così ogni lavoro dell’Angelici. Due timbri che lasciano intravedere il senso profondo del titolo della mostra: Patire la passione. Cioè condividere fino in fondo il pathos del vivere, fino a scorgere, oltre le pieghe del dolore, la luce di un Bene senza confini.

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