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Parte I

Autore:
Giovanni Paolo II
Fonte:
Copyright © Libreria Editrice Vaticana
"Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gn 1,31)


L’artista, immagine di Dio Creatore


1. Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l’opera del vostro estro, avvertendovi quasi l’eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi.
Per questo mi è sembrato non ci fossero parole più appropriate di quelle della Genesi per iniziare questa mia Lettera a voi, ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita. Con questo scritto intendo mettermi sulla strada di quel fecondo colloquio della Chiesa con gli artisti che in duemila anni di storia non si è mai interrotto, e si prospetta ancora ricco di futuro alle soglie del terzo millennio.
In realtà, si tratta di un dialogo non dettato solamente da circostanze storiche o da motivi funzionali, ma radicato nell’essenza stessa sia dell’esperienza religiosa che della creazione artistica. La pagina iniziale della Bibbia ci presenta Dio quasi come il modello esemplare di ogni persona che produce un’opera: nell’uomo artefice si rispecchia la sua immagine di Creatore. Questa relazione è evocata con particolare evidenza nella lingua polacca, grazie alla vicinanza lessicale fra le parole stwórca (creatore) e twórca (artefice).
Qual è la differenza tra «creatore» ed «artefice?» Chi crea dona l’essere stesso, trae qualcosa dal nulla — ex nihilo sui et subiecti, si usa dire in latino — e questo, in senso stretto, è modo di procedere proprio soltanto dell’Onnipotente. L’artefice, invece, utilizza qualcosa di già esistente, a cui dà forma e significato. Questo modo di agire è peculiare dell’uomo in quanto immagine di Dio. Dopo aver detto, infatti, che Dio creò l’uomo e la donna «a sua immagine» (cfr Gn 1,27), la Bibbia aggiunge che affidò loro il compito di dominare la terra (cfr Gn 1,28). Fu l’ultimo giorno della creazione (cfr Gn 1,28-31). Nei giorni precedenti, quasi scandendo il ritmo dell’evoluzione cosmica, Jahvé aveva creato l’universo. Al termine creò l’uomo, il frutto più nobile del suo progetto, al quale sottomise il mondo visibile, come immenso campo in cui esprimere la sua capacità inventiva.
Dio ha, dunque, chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito di essere artefice. Nella «creazione artistica» l’uomo si rivela più che mai «immagine di Dio», e realizza questo compito prima di tutto plasmando la stupenda «materia» della propria umanità e poi anche esercitando un dominio creativo sull’universo che lo circonda. L’Artista divino, con amorevole condiscendenza, trasmette una scintilla della sua trascendente sapienza all’artista umano, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice. E ovviamente una partecipazione, che lascia intatta l’infinita distanza tra il Creatore e la creatura, come sottolineava il Cardinale Nicolò Cusano: «L’arte creativa, che l’anima ha la fortuna di ospitare, non s’identifica con quell’arte per essenza che è Dio, ma di essa è soltanto una comunicazione ed una partecipazione». (1)
Per questo l’artista, quanto più consapevole del suo «dono», tanto più è spinto a guardare a se stesso e all’intero creato con occhi capaci di contemplare e ringraziare, elevando a Dio il suo inno di lode. Solo così egli può comprendere a fondo se stesso, la propria vocazione e la propria missione.


La speciale vocazione dell’artista


2. Non tutti sono chiamati ad essere artisti nel senso specifico del termine. Secondo l’espressione della Genesi, tuttavia, ad ogni uomo è affidato il compito di essere artefice della propria vita: in un certo senso, egli deve farne un’opera d’arte, un capolavoro.
E importante cogliere la distinzione, ma anche la connessione, tra questi due versanti dell’attività umana. La distinzione è evidente. Una cosa, infatti, è la disposizione grazie alla quale l’essere umano è l’autore dei propri atti ed è responsabile del loro valore morale, altra cosa è la disposizione per cui egli è artista, sa agire cioè secondo le esigenze dell’arte, accogliendone con fedeltà gli specifici dettami. (2) Per questo l’artista è capace di produrre oggetti, ma ciò, di per sé, non dice ancora nulla delle sue disposizioni morali. Qui, infatti, non si tratta di plasmare se stesso, di formare la propria personalità, ma soltanto di mettere a frutto capacità operative, dando forma estetica alle idee concepite con la mente.
Ma se la distinzione è fondamentale, non meno importante è la connessione tra queste due disposizioni, la morale e l’artistica. Esse si condizionano reciprocamente in modo profondo. Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. Ciò trova innumerevoli conferme nella storia dell’umanità. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere d’arte parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura.


La vocazione artistica a servizio della bellezza


3. Scrive un noto poeta polacco, Cyprian Norwid: «La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere». (3)
Il tema della bellezza è qualificante per un discorso sull’arte. Esso si è già affacciato, quando ho sottolineato lo sguardo compiaciuto di Dio di fronte alla creazione. Nel rilevare che quanto aveva creato era cosa buona, Dio vide anche che era cosa bella. (4) Il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: «kalokagathía», ossia «bellezza-bontà». Platone scrive al riguardo: «La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello». (5)
E vivendo ed operando che l’uomo stabilisce il proprio rapporto con l’essere, con la verità e con il bene. L’artista vive una peculiare relazione con la bellezza. In un senso molto vero si può dire che la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore col dono del «talento artistico». E, certo, anche questo è un talento da far fruttare, nella logica della parabola evangelica dei talenti (cfr Mt 25,14-30).
Tocchiamo qui un punto essenziale. Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica — di poeta, di scrittore, di pittore, di scultore, di architetto, di musicista, di attore... — avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo, per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità.


L’artista ed il bene comune


4. La società, in effetti, ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, di professionisti, di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri, che garantiscano la crescita della persona e lo sviluppo della comunità attraverso quell’altissima forma di arte che è «l’arte educativa». Nel vasto panorama culturale di ogni nazione, gli artisti hanno il loro specifico posto. Proprio mentre obbediscono al loro estro, nella realizzazione di opere veramente valide e belle, essi non solo arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuna nazione e dell’intera umanità, ma rendono anche un servizio sociale qualificato a vantaggio del bene comune.
La differente vocazione di ogni artista, mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare. Un artista consapevole di tutto ciò sa anche di dover operare senza lasciarsi dominare dalla ricerca di gloria fatua o dalla smania di una facile popolarità, ed ancor meno dal calcolo di un possibile profitto personale. C’è dunque un’etica, anzi una «spiritualità» del servizio artistico, che a suo modo contribuisce alla vita e alla rinascita di un popolo. Proprio a questo sembra voler alludere Cyprian Norwid quando afferma: «La bellezza è per entusiasmare al lavoro, il lavoro è per risorgere».


L’arte davanti al mistero del Verbo incarnato


5. La Legge dell’Antico Testamento presenta un esplicito divieto di raffigurare Dio invisibile ed inesprimibile con l’aiuto di «un’immagine scolpita o di metallo fuso» (Dt 27,15), perché Dio trascende ogni raffigurazione materiale: «Io sono colui che sono» (Es 3,14). Nel mistero dell’Incarnazione, tuttavia, il Figlio di Dio in persona si è reso visibile: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio nato da donna» (Gal 4,4). Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo, il quale è diventato così «il centro a cui riferirsi per poter comprendere l’enigma dell’esistenza umana, del mondo creato e di Dio stesso». (6)
Questa fondamentale manifestazione del «Dio-Mistero» si pose come incoraggiamento e sfida per i cristiani, anche sul piano della creazione artistica. Ne è scaturita una fioritura di bellezza che proprio da qui, dal mistero dell’Incarnazione, ha tratto la sua linfa. Facendosi uomo, infatti, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo.
La Sacra Scrittura è diventata così una sorta di «immenso vocabolario» (P. Claudel) e di «atlante iconografico» (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana. Lo stesso Antico Testamento, interpretato alla luce del Nuovo, ha manifestato filoni inesauribili di ispirazione. A partire dai racconti della creazione, del peccato, del diluvio, del ciclo dei Patriarchi, degli eventi dell’esodo, fino a tanti altri episodi e personaggi della storia della salvezza, il testo biblico ha acceso l’immaginazione di pittori, poeti, musicisti, autori di teatro e di cinema. Una figura come quella di Giobbe, per fare solo un esempio, con la sua bruciante e sempre attuale problematica del dolore, continua a suscitare insieme l’interesse filosofico e quello letterario ed artistico. E che dire poi del Nuovo Testamento? Dalla Natività al Golgota, dalla Trasfigurazione alla Risurrezione, dai miracoli agli insegnamenti di Cristo, fino agli eventi narrati negli Atti degli Apostoli o prospettati dall’Apocalisse in chiave escatologica, innumerevoli volte la parola biblica si è fatta immagine, musica, poesia, evocando con il linguaggio dell’arte il mistero del «Verbo fatto carne».
Nella storia della cultura tutto ciò costituisce un ampio capitolo di fede e di bellezza. Ne hanno beneficiato soprattutto i credenti per la loro esperienza di preghiera e di vita. Per molti di essi, in epoche di scarsa alfabetizzazione, le espressioni figurative della Bibbia rappresentarono persino una concreta mediazione catechetica. (7) Ma per tutti, credenti e non, le realizzazioni artistiche ispirate alla Scrittura rimangono un riflesso del mistero insondabile che avvolge ed abita il mondo.


Tra Vangelo ed arte un’alleanza feconda


6. In effetti, ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose. Un’esperienza condivisa da tutti gli artisti è quella del divario incolmabile che esiste tra l’opera delle loro mani, per quanto riuscita essa sia, e la perfezione folgorante della bellezza percepita nel fervore del momento creativo: quanto essi riescono ad esprimere in ciò che dipingono, scolpiscono, creano non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del loro spirito.
Di questo il credente non si meraviglia: egli sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta come sopraffatto al punto da non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a riconoscere il suo limite ed a far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio «non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo», così che «non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (At 17,24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre «al di là» delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!
Di altra natura è la conoscenza di fede: essa suppone un incontro personale con Dio in Gesù Cristo. Anche questa conoscenza, tuttavia, può trarre giovamento dall’intuizione artistica. Modello eloquente di una contemplazione estetica che si sublima nella fede sono, ad esempio, le opere del Beato Angelico. Non meno significativa è, a questo proposito, la lauda estatica, che san Francesco d’Assisi ripete due volte nella chartula redatta dopo aver ricevuto sul monte della Verna le stimmate di Cristo: «Tu sei bellezza... Tu sei bellezza!». (8) San Bonaventura commenta: «Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto». (9)
Un approccio non dissimile si riscontra nella spiritualità orientale, ove Cristo è qualificato come «il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali». (10) Macario il Grande commenta così la bellezza trasfigurante e liberatrice del Risorto: «L’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo... è tutta occhio, tutta luce, tutta volto». (11)
Ogni forma autentica d’arte è, a suo modo, una via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto valido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta. Ecco perché la pienezza evangelica della verità non poteva non suscitare fin dall’inizio l’interesse degli artisti, sensibili per loro natura a tutte le manifestazioni dell’intima bellezza della realtà.
Note
(1) Dialogus de ludo globi, lib. II: Philosophisch-Theologische Schriften, Wien 1967, III, p. 332.
(2) Le virtù morali, e tra queste in particolare la prudenza, consentono al soggetto di agire in armonia con il criterio del bene e del male morale: secondo la recta ratio agibilium (il giusto criterio dei comportamenti). L’arte, invece, è definita in filosofia come recta ratio factibilium (il giusto criterio delle realizzazioni).
(3) Promethidion: Bogumil vv. 185-186: Pisma wybrane, Warszawa 1968, vol. 2, p. 216.
(4) Espresse efficacemente questo aspetto la traduzione greca dei Settanta, rendendo il termine t (o)b (buono) del testo ebraico con kalón (bello).
(5) Filebo, 65 A.
(6) GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 80: AAS 91 (1999), 67.
(7) Questo principio pedagogico è stato autorevolmente enunciato da S. Gregorio Magno in una lettera del 599 al Vescovo di Marsiglia Sereno: «La pittura è adoperata nelle chiese perché gli analfabeti, almeno guardando sulle pareti, leggano ciò che non sono capaci di decifrare sui codici», Epistulae, IX, 209: CCL 140A, 1714.
(8) Lodi di Dio altissimo, vv. 7 e 10: Fonti Francescane, n. 261. Padova 1982, p. 177.
(9) Legenda maior, IX, 1: Fonti Francescane, n. 1162, l.c., p. 911.
(10) Enkomia dell’Orthós del Santo e Grande Sabato.
(11) Omelia I, 2: PG 34, 451.