Benedetto XVI a Marcello Pera 1: l’essenza del liberalismo
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Secondo Pera sia il liberalismo autentico ed originario – quello dei “Padri”, individuati principalmente in John Locke, Thomas Jefferson ed Immanuel Kant – sia la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo – i diritti oggi riconosciuti dalle carte internazionali – che precedono come tali ogni decisione positiva degli stati si fondano su una concezione etica dell’uomo ritenuta vera e trans-culturale. Pera sottolinea la matrice teista e cristiana di tali diritti, iscritti nella nostra natura dal Creatore: per questo come afferma la Dichiarazione di indipendenza americana, “tutti gli uomini sono creati uguali – dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili”. Così mentre da una parte si conferma l’incompatibilità del liberalismo con il relativismo, dall’altra emerge il suo “nesso non estrinseco”, storico e concettuale con il cristianesimo. Il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti. Il merito della Dichiarazione Universale è di aver permesso a differenti culture, espressioni giuridiche e modelli istituzionali di convergere attorno ad un nucleo fondamentale di valori, e quindi di diritti. L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale “pre-politica” – etica, metafisica o religiosa, sacramentale che sia –, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali. Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica. Dato che i diritti e i conseguenti doveri seguono naturalmente dall’interazione umana, è facile dimenticare che essi sono il frutto di un comune senso della giustizia, basato primariamente sulla solidarietà fra i membri della società e perciò validi per tutti i tempi e per tutti i popoli. Questa intuizione fu espressa sin dal quinto secolo da Agostino di Ippona, uno dei maestri della nostra eredità intellettuale, il quale ebbe a dire riguardo al “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” che tale massima “non può in alcun modo variare a seconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo” (De doctrina christiana, III, 14). Perciò i diritti umani debbono essere rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori.
Pera sottopone ad un esame approfondito le posizioni e le motivazioni di alcuni principali teorici del liberalismo che non condividono questa tesi, tra i quali anzitutto John Rawls e Jürgen Habermas (quest’ultimo non un liberale in senso stretto). Essi sostengono l’autosufficienza del liberalismo politico, nel senso che esso non si basa su alcuna lettura “pre-politica” – etica, metafisica o religiosa che sia – e anche che esso distingue e separa la sfera pubblica, non religiosa, dalle sfere private, religiose o di altro tipo: anche se poi questa separazione dagli stessi autori – soprattutto Habermas – è in buona misura attenuata e sorretta puntando a un processo pubblico di argomentazione sensibile alla verità, con il risultato però, dato che sono prevalentemente i partiti responsabili della formazione della volontà politica condizionati dalla necessità del conseguimento di maggioranze, di rendere le loro posizioni alquanto incerte e anche non troppo coerenti. Pera mostra come questa autosufficienza del liberalismo sia soltanto apparente, mentre in realtà esso presuppone il riconoscimento dell’altro come persona cioè l’essere in se stesso e per se stesso e quindi di se stesso.
Assai diversa è la posizione di Benedetto Croce: specialmente nel celebre saggio: “Perché non possiamo non dirci cristiani”, egli fa un grandissimo e commosso elogio del cristianesimo, come la più grande e tuttora decisiva rivoluzione che l’umanità abbia compiuto. Il suo liberalismo però non è una dottrina giuridico-politica, ma “una concezione idealistica totale del mondo e della realtà”: in concreto la libertà è lo Spirito nella storia, mentre “lo svolgimento dello Spirito” è il cammino stesso della libertà. In questa concezione immanentista la rivoluzione cristiana può essere solo un momento dello svolgimento dello Spirito stesso. Perciò, mentre il filosofo idealista (Dio stesso è hegelianamente un concetto dell’uomo) vede nell’uomo religioso il suo “fratello minore, il suo se stesso di un momento prima”, quest’ultimo non può non vedere nel filosofo “il suo avversario, anzi il suo nemico mortale”. Pera conclude che in questo modo Benedetto Croce – sia pure controvoglia – finisce con il dare una giustificazione filosofica, e non solo contingente come è ad esempio l’anticlericalismo, alla “equazione laica” che vuole identificare l’autentico liberalismo con il superamento di ogni spazio pubblico della religione, di ogni metafisica e quindi di ogni etica universale e con il laicismo.