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Che cosa ci ha detto Sobhy Makhoul, cristiano di Terrasanta

Fonte:
CulturaCattolica.it

Scende la sera su Betlemme. Tornare al di là del “muro” è un po’ più complicato che entrare in Cisgiordania. Al “check point” israeliano sale sul pullman un giovane soldato, un ragazzo dal viso fanciullesco e dal sorriso smagliante, con il mitra a tracolla puntato verso il basso. Quando viene a sapere che siamo di Milano, esplode in un grido entusiasta: “Milan, Milan!” Si riferisce ovviamente alla squadra rossonera, popolare anche qui. Cerchiamo di tenergli bordone con risate simpatiche e cori da stadio, ma lui si rivela inflessibile. “Passport please!” Controlla ad uno ad uno i nostri documenti; c’è un attimo di panico quando Raffaella non trova più il suo ed egli non si schioda dalla poltrona del pullman finché tutto non è in regola. Con le luci della sera giungiamo al “Ramada”, dove una fila di inservienti si occupano dei nostri bagagli trasportandoli presso la reception. Il colpo d’occhio è impressionante: una dozzina di piani con ampie camere, spazi immensi nella hall, tessere magnetiche per le porte, profumi esotici negli ascensori, sauna e piscina... Ben presto ci accorgiamo della presenza di altre comitive di Italiani; tra queste un gruppo di Padova col prof. Filippetti. La cena è degna delle attese; anche qui buffet (che semplifica grandemente il servizio) con ogni sorta di Ben di Dio: dai falafel al goulash ai dolci ai gelati... Tavoli da otto persone, le compagnie si mescolano e le amicizie si intrecciano e si rinnovano. Del resto tre giorni di convivenza e la natura della nostra esperienza hanno già creato tra noi dei solidi legami.
Il dopocena presenta un interessante fuoriprogramma (solo in parte preventivabile): dopo il pomeriggio al “ Good Shepherd’s Store” è lo stesso Sobhy Makhoul, il responsabile del Movimento e l’animatore della Cooperativa artigiana di Betlemme, a raccontarci drammi e miracoli della presenza cristiana in Terrasanta.
“Sono contento, anche in questa situazione orrenda della guerra”, esordisce Sobhy spiazzando tutti, “perché la vittoria di Cristo è già stata compiuta, e in me la certezza dell’appartenenza a Cristo è l’unica possibilità di vivere con gioia. Più sono cosciente di questo più affronto ogni problema con sguardo pieno di speranza. La situazione degli Arabi cattolici in un mondo a maggioranza ebraica o mussulmana è paradossale: per i mussulmani siamo legati all’Occidente, e quindi inaffidabili; per gli ebrei siamo arabi, e quindi inaffidabili. E’ una frustrazione immensa... ma il problema non è la forza dell’Islam, bensì la debolezza nostra. Se rinuncio alla mia identità per dialogare, non sono più niente, è un dialogo tra sordi. Il problema del Cristianesimo è la rinuncia alla propria identità. Noi testimoniamo con la nostra vita, rispondiamo alle esigenze partendo da quello che siamo. L’artigianato di Betlemme è un tentativo nostro, non vogliamo mungere soldi alle Conferenze episcopali, vogliamo lavorare. E abbiamo un bilancio lusinghiero anche in termini economici. Abbiamo costruito 250mila rosari per la visita del Papa in Spagna, alcuni anni fa, in tre mesi di lavoro. Ci sono solo due modi per risolvere i problemi: o ti rimbocchi le maniche o aspetti aiuto, ma da chi? Questa è la testimonianza che attira gli altri”. Sobhy ci parla ancora del rapporto con l’Islam, una teocrazia che non distingue potere temporale e potere spirituale; e con gli Ebrei, che sono i nostri fratelli maggiori in quanto depositari della prima Promessa; diverso è lo Stato di Israele, laico e poco interessato alle questioni religiose. Don Franco conclude: “Anche noi per certi aspetti siamo emarginati su molti problemi in Occidente... L’importante è andare a testa alta affrontando le questioni senza nasconderci”.

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