3 Agosto - ALEKSANDR SOLGENITSIN: la crisi della cultura occidentale.
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Aleksandr Isaevic Solženicyn (Kislovodsk, 11 dicembre 1918 – Mosca, 3 agosto 2008), uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso, e sembra che sia già caduta sulla sua opera una pesante coltre di silenzio da parte degli esponenti della cultura dominante mondiale.

Riportiamo le parole di Andrea Forti e di Eugenio Corti per continuare a confrontarsi con le sue sconvolgenti proposte.
Ricordando Solzhenicyn di Andrea Forti,
da Ragion politica (01/08/09)
Il 3 agosto del 2008 si spegneva all'età di 89 anni, nella sua residenza nei pressi di Mosca, uno degli ultimi giganti della storia e della cultura del secolo ventesimo, ALEXANDR ISAEVICH SOLZHENICYN.
La sua figura di soldato pluridecorato (nella guerra contro i tedeschi), di internato nel gulag, di dissidente, di scrittore (forse l'ultimo dei grandi russi) e di premio Nobel (nel 1970) non è certo delineabile in poche righe, ma basti ricordare l'immensa importanza che ebbero nella storia del '900 la pubblicazione del suo primo romanzo, "Una giornata di Ivan Denisovich" (1962), e soprattutto la comparsa, nel 1974, del primo volume della sua monumentale storia dell'apparato repressivo e concentrazionario sovietico, il celebre "Arcipelago Gulag", il cui paziente lavoro di scrittura e di raccolta di memorie di internati iniziò già dalla fine degli anni '50.
Le opere di Solzhenicyn, che gli costarono nel 1974 un esilio ventennale in Occidente, prima in Germania e Svizzera e infine negli Stati Uniti, aprirono finalmente gli occhi dell'opinione pubblica occidentale, anche di quella «progressista», sugli spaventosi crimini del comunismo sovietico, fino ad allora negati o minimizzati anche da molti intellettuali non comunisti.
Il merito storico di Alexandr Solzhenicyn è stato quello di scardinare i falsi miti grazie ai quali il comunismo ha potuto affermarsi e prosperare anche al di fuori delle ristrette cerchie di militanti dei vari partiti comunisti mondiali, influenzando schiere di intellettuali liberali, socialisti e persino cattolici.
Il più importante dei tanti falsi miti demoliti dallo scrittore dissidente è quello, ancora oggi duro a morire, che vorrebbe i crimini comunisti essere una conseguenza dell'indole tirannica di Stalin e non, come in effetti furono, la logica conseguenza dell'applicazione sugli uomini di teorie astratte e basate sull'illusione di poter costruire, a partire da élites di «illuminati», una società perfetta di eguali.
Leggendo l'Arcipelago è chiaro come dell'esperimento sovietico non siano da salvare neppure le «intenzioni».
Un altro mito abbattuto dalle pagine di Solzhenicyn è quello che di fatto ha reso impossibile ogni critica seria al comunismo almeno fino alla fine degli anni '80: la convinzione che l'URSS e il comunismo, in quanto presunti e unici vincitori del «male assoluto» hitleriano, avessero diritto allo status di «bene assoluto».
Questo errato sillogismo storico, che per mezzo secolo ha inchiodato all'accusa di «fascismo» qualsiasi seria critica al comunismo, è stato smontato dallo scrittore che ha dimostrato come la «vittoria» sovietica del 1945, una volta superato il giusto obiettivo della cacciata dei tedeschi dalle frontiere patrie, si sia trasformata in una feroce occupazione dell'Europa Orientale, sottoposta ad una cinquantennale oppressione i cui frutti avvelenati ancora inquinano i rapporti fra la Russia e molti paesi dell'ex Impero (basti pensare ai pessimi rapporti fra Mosca e l'Ucraina o i paesi baltici). L'altissimo tributo di sangue pagato dai popoli sovietici durante l'ultima guerra (22 milioni di morti) è stato, secondo Solzhenicyn, una conseguenza più dell'incapacità dei vertici sovietici che della ferocia nazista.
Uno dei contributi più sintetici e importanti di Solgenitsin è il suo intervento ad Harvard dal titolo «Un mondo in frantumi», tenuto l'8 giugno 1978, in occasione del conferimento della laurea ad honorem in letteratura.
Eccone l’ultima parte:
«Il cammino che abbiamo percorso a partire dal Rinascimento ha arricchito la nostra esperienza, ma ci ha fatto anche perdere quel Tutto, quel Più alto che un tempo costituiva un limite alle nostre passioni e alla nostra irresponsabilità. Abbiamo riposto troppe speranze nelle trasformazioni politico-sociali e il risultato è che ci viene tolto ciò che abbiamo di più prezioso: la nostra vita interiore. All’Est è il bazar del Partito a calpestarla, all’Ovest la fiera del commercio. (…).
Se l’uomo fosse nato solo per la felicità, non sarebbe nato anche per la morte. Ma poiché è corporalmente votato alla morte, il suo compito su questa Terra non può essere che ancor più spirituale: non l’ingozzarsi di quotidianità, non la ricerca dei sistemi migliori di acquisizione, e poi di spensierata dilapidazione, dei beni materiali, ma il compimento di un duro e permanente dovere, così che l’intero cammino della nostra vita diventi l’esperienza di un’ascesa soprattutto morale: che ci trovi, al termine del cammino, creature più elevate di quanto non fossimo nell’intraprenderlo. Inevitabilmente dovremo rivedere la scala dei valori universalmente acquisita e stupirci della sua inadeguatezza ed erroneità. E’ impossibile, ad esempio, che il giudizio sull’attività di un presidente debba derivare unicamente da quanto prendi di paga o dal fatto se la vendita della benzina è razionata o meno. Solo l’educazione volontaria in se stesso di un’autolimitazione pura e benefica innalza gli uomini al di sopra del fluire materiale del mondo.
Aggrapparsi oggi alle anchilosate formule dell’Illuminismo è da retrogradi. Questo dogmatismo sociale ci rende impotenti di fronte alle prove dell’era attuale. Seppure ci verrà risparmiata la catastrofe di una guerra, la nostra vita, inevitabilmente, non potrà più restare quella che è ora, se non vorrà darsi da sé la morte.
Non potremo far a meno di rivedere le definizioni fondamentali della vita umana e della società: l’uomo è veramente il criterio di ogni cosa? Veramente non esiste al di sopra dell’uomo uno Spirito supremo? Veramente la vita dell’uomo e l’attività della società devono anzitutto valutarsi in termini di espansione materiale? Ed è ammissibile sviluppare questa espansione a detrimento della nostra vita interiore? Il mondo è oggi alla vigilia, se non della propria rovina, di una svolta della storia, equivalente per importanza alla svolta dal Medio Evo al Rinascimento; e tale svolta esigerà da noi tutti un impeto spirituale, un’ascesa verso nuove altezze di intendimenti, verso un nuovo livello di vita dove non verrà più consegnata alla maledizione, come nel Medio Evo, la nostra natura fisica, ma neppure verrà, come nell’Era contemporanea, calpestata la nostra natura spirituale. Quest’ascesa è paragonabile al passaggio a un nuovo grado antropologico. E nessuno, sulla Terra, ha altra via d’uscita che questa: andare più in alto».
Tra i commenti più acuti si colloca quello di Eugenio CORTI, Solgenitsin ad Harvard, tratto da: Eugenio CORTI, Il Fumo nel Tempio, Ares, Milano 1997, p. 127-130. Luglio 1978.
https://www.eugeniocorti.net/?p=2346
"Dopo tre anni di silenzio Solgenitsin ha parlato il mese scorso all'università di Harvard, davanti a quindicimila persone, per esporre il suo punto di vista (che è anche quello di altri esuli dell'Est) sulla società occidentale. Giustamente nel riportare quell'importante discorso il «Corriere della Sera» (che adesso, ogni tanto, ha impulsi d'obiettività) afferma: «Si condividano o no le sue idee, Solgenitsin pone le basi di uno dei dibattiti fondamentali del nostro tempo».
Dopo aver anticipato: «Non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della società sovietica», il grande scrittore russo ha tracciato dell'Occidente contemporaneo un quadro severo, di cui possiamo riportare qui solo i punti principali:
«Ciò che forse colpisce di più lo straniero è il fatto che il coraggio civico non ha soltanto disertato il mondo occidentale nel suo complesso, ma anche ciascuno dei paesi che lo compongono... nonché, beninteso, l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Questo declino del coraggio è particolarmente sensibile nello strato dirigente e nello strato intellettuale dominante... Certo vi è ancora molto coraggio individuale, ma non è questa gente che dà la direzione alla vita della società... necessario ricordare che il declino del coraggio è stato sempre considerato il segno precursore della fine?»
Prosegue: «La stampa (uso la parola «stampa» per designare tutti i mezzi di informazione di massa) è diventata la più grande potenza in seno ai paesi occidentali...». Ma «andare al nocciolo dei problemi le è controindicato, non è nella sua natura; essa non considera che le formule a sensazione.
L'Occidente, che non ha una censura, opera tuttavia una selezione puntigliosa separando le idee alla moda da quelle che non lo sono... Senza che vi sia, come nell'Est, aperta violenza, questa selezione operata dalla moda... impedisce ai pensatori più originali di apportare il loro contributo alla vita pubblica, e provoca la comparsa di un pericoloso spirito gregario che è d'ostacolo a uno sviluppo degno di questo nome».
«Ma l'errore più grossolano e crudele è stato commesso in rapporto all'incomprensione della guerra del Vietnam. Gli uni volevano sinceramente la cessazione più rapida possibile di qualsiasi guerra» (tra costoro purtroppo molti cattolici, e tanta ingenua e miope stampa cattolica, non solo in America - n.d.r.) «altri si sono messi in testa che bisognava dar corso all'autodeterminazione... E accade, di fatto, che i membri del movimento pacifista americano hanno contribuito a tradire i popoli dell'Estremo Oriente, si sono fatti complici del genocidio e delle sofferenze che tormentano laggiù trenta milioni di uomini. Ma questi gemiti li sentono i pacifisti per principio? Hanno coscienza oggi della loro responsabilità? Oppure preferiscono non sentirli?»
«Se l'onnipotente America si è vista infliggere una sconfitta piena e completa da un piccolo semipaese comunista, su quale forza di resistenza può contare l'Occidente in avvenire?
Nessun armamento, per quanto grande sia, aiuterà l'Occidente, finché questo non avrà superato la sua perdita di volontà. Quando si è indeboliti spiritualmente, questo armamento diventa esso stesso un peso per il vigliacco. Per difendersi bisogna essere disposti a morire, e questa disposizione non esiste che in piccola quantità nel seno di una società cresciuta nel benessere terreno».
Come mai si è giunti a una simile situazione d'impotenza? Forse «l'evoluzione dell'Occidente ha conosciuto svolte funeste, perdite di rotta? Sembra di no... Allora non resta che cercare l'errore alla radice stessa, alla base del pensiero dei tempi nuovi. Voglio dire: la concezione del mondo che domina in Occidente, nata nel Rinascimento, fusa in stampi politici a partire dall'età dei lumi».
Solgenitsin definisce tale concezione «umanesimo razionale», o «antropocentrismo»: esso ha respinto Dio da centro della realtà, per mettervi al suo posto l'uomo.
«La coscienza umanistica si proclamò nostra guida, negò l'esistenza del male all'interno dell'uomo, e all'uomo non riconobbe compito più alto che l'acquisizione della felicità terrena; pose alla base della civiltà occidentale moderna una pericolosa tendenza a prosternarsi dinanzi all'uomo e ai suoi bisogni materiali.»
«Più l'umanesimo è diventato materialista... più ha dato presa alla speculazione da parte del socialismo, poi del comunismo... Nelle fondamenta dell'attuale umanesimo consunto, come in quelle del socialismo, è possibile discernere delle pietre comuni.»
Dopo avere indicate tali «pietre», il grande scrittore russo ricorda: «Non è per caso che tutti i giuramenti verbali del comunismo girano attorno all'Uomo con la U maiuscola e alla sua felicità terrena».
«Questa correlazione di parentele» egli precisa, ha però «una legge, che è la seguente: ...la più vittoriosa è sempre la corrente materialista situata più a sinistra, e pertanto più coerente. E l'umanesimo, che ha interamente perduta la sua eredità cristiana, è incapace di tener duro in questa competizione».
Conclude: «Il mondo, oggi, è alla vigilia se non della propria perdita, per lo meno di una svolta della storia che non cede in nulla per importanza alla svolta dal Medio Evo al Rinascimento: questa svolta esigerà da noi una fiammata spirituale, un'ascesa verso una nuova altezza di vedute, verso un nuovo modo di vita, in cui non sarà più abbandonata alla maledizione, come nel Medio Evo, la nostra natura fisica, ma in cui non sarà nemmeno calpestata, come nell'era moderna, la nostra natura spirituale... Nessuno sulla terra ha altra via d'uscita che quella di andare sempre più in alto».
Il formidabile discorso è stato commentato dappertutto (in Italia per la verità assai poco: da noi la «moda rossa» s'impone talmente da impedire ogni seria discussione sulle cose che più contano). Nel resto dell'Occidente possiamo dire che i promarxisti –com'era da attendersi– l'hanno in vario modo boicottato o deriso; ma anche gli autori liberali più aperti e intelligenti, purtroppo, pur riconoscendo i meriti di Solgenitsin per la sua lotta contro il sistema dei gulag, si stanno dimostrando in genere insofferenti delle sue critiche. Così, per fare un esempio, un giornalista di solito centrato, e importante anche per noi italiani, come J. F. Revel, afferma:
«Da cinque secoli l'individuo occidentale lotta per conquistare il diritto e la responsabilità di definire da solo le proprie credenze, la propria morale, i propri valori estetici, gli orientamenti della sua ricerca intellettuale, che nessun dogma deve più limitare».
È il ben noto discorso «illuminista», secondo il quale l'uomo dovrebbe affrontare ogni realtà utilizzando unicamente i propri «lumi», e rifiutando ogni apporto della trascendenza. In questo caso Revel finisce però col parlare come i tante volte da lui deprecati autori comunisti. E oltre tutto non accetta di prendere in considerazione la realtà obiettiva: il fatto che nell'attuale situazione a orientare la gente non sono affatto le coscienze individuali, ma i mass media, la cui superficialità e irresponsabilità tutti conosciamo, e Solgenitsin ha ancora una volta messo in risalto.
Ciò che più colpisce chi scrive queste note è però un'altra cosa: il fatto che i cristiani anzi i cattolici non abbiano immediatamente individuato nel discorso di Solgenitsin il discorso che è stato loro proprio finché la cultura cattolica non è entrata nell'attuale stato di confusione.
Si tratta della nostra stessa visione della storia, che individuava e individua appunto l'inizio della scristianizzazione nel passaggio dal «teocentrismo» all'«antropocentrismo» rinascimentale.
Ci tornano in mente tante nostre argomentazioni giovanili, le accese discussioni negli anni della guerra e del dopoguerra, le parole di allora... Adesso quella visione storica davvero d'avanguardia, davvero intuitrice del fallimento sia comunista che liberale, la riscoprono coloro che la sofferenza dei lager ha purificato e fatto crescere moralmente, i non pusillanimi. Li lasceremo soli a darsi da fare per la verità?