"Il gruista" di E. Jannacci - Una vertigine all'incontrario
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“faceva andar la gru, perciò era un gruista
appeso a cento metri su nel ciel
ma di lassù godeva di una gran bella vista
e non scendeva mai neanche a dormir”
(Il gruista)
- Se butta un sasso nella pozzanghera cosa vien fuori?
- Un momento poetico. La pozzanghera è uguale come la gru.
- Sì ma guardi che le garitte delle gru sono piene di gente mandata su a protestare, non si metterà a tirarci dentro i sassi.
- Quelli lì non sono gruisti. Stan su un po’, poi dopo che il Tg li ha ripresi per il servizio, vengono giù. Cosa vuole che gliene freghi della gru. Non se ne curano. Non si curano neanche delle putrelle da spostare in su e in giù.
- Lei è medico?
- In via Sismondi. Il mio gruista è lì, in zona piazza Adigrat, dove stava il povero Beppe Viola e adesso tirano su un grattacielo. Il mio gruista vado su io a visitarlo, perché lui non scende mai, neanche dopo il Tg. Sta su full time, giorno e notte, nella garitta che ci dorme anche dentro. Sa che si è appena sposato?
- In chiesa o in comune?
- No in garitta.
- Gli piace spostare le putrelle?
- Gli piace godersi quella gran bella vista.
- Sì ma lei, voglio dire la sua signora, lui dov’è che l’ha conosciuta, se veniva mai giù?
- Dentro nel grattacielo. Cioè, lei era dentro. Lui fuori. Attraverso i vetri. Pari altezza, pari opportunity.
- Ma han preso un appartamentino in affitto, un pied à terre, almeno?
- Niente. Abitano in garitta, che è come un pied en ciel. Tucc e du.
Accade al gruista come a Vincenzina con la fabbrica: si adegua, si affeziona alla gru, si lascia prendere dall’attrattiva di quella gran bella vista che da lassù, sì dalla garitta, si gode. E se un’attrattiva così potente ti prende, non la molli più. Visto di lassù, da questo punto altrove, il mondo ha un ordine, un equilibrio, una bellezza… L’umano riappare visto dalla periferia più stranamente periferia, quella che sta in alto, appesa a 100 metri su nel cielo. Perfino il gran bottone in ferro per manovrare diventa una cosa bella e cara.
Mica solo il gruista ha queste esperienze. La poesia della ferraglia e dell’altrove ha conquistato tanti meccanici, saldatori, carpentieri, camionisti. Camionisti, sì: sempre su in gabina, a farsi i muscoli sul volante senza ausilio di servosterzo di giorno, a sonnecchiare alla meglio sulla cuccetta dietro i sedili la notte. In un pied a ruote di due metri per uno e trenta in due, l’autista e il fattorino (vice autista un tempo saggiamente obbligatorio). Anzi, in tre, perché in mezzo, fra i due sedili, c’era il baulone di ferraglia con dentro il rumoroso motorone Fiat 203, 6 cilindroni grossi come vasi da fiori, 10.600 e passa di cilindrata, 140 cavalli a 1900 giri e qualche esalazione di vapori di gasolio all’occorrenza da sniffare. All’epoca non facevano così male perché non si misurava ancora il pm10. Ercoli autista con fattorino Borsa e motore Fiat 682 N, camion detto il re d’Africa. Rino Spagliardi con Pugni Pietro e un motore OM Orione. Pingall con Carlofermet, e motore Fiat 619; veicolo semiarticolato, cassone frigorifero, capace di andare anche in Svizzera e non solo quella italiana (fuori dal camion, cioè mai, avevano nome Giuseppe Galli e Carlo Arrigoni, ma non lo sapevano più neanche loro). Gino Montoli lo Squalo, invece non aveva il fattorino e il motore ce l’aveva davanti: stava tutto il giorno nella gabina di un trattore da manovra Fordson Major Diesel color blu marin, foderata di Gazzetta dello Sport e cartoline tipo Saluti da Gatteo Mare speditegli delle numerose spasimanti.
E’ un tipo di gente, gli autisti, che a scendere giù dal suo camion, gli vengono non proprio le vertigini ma posture disorientate e certe camminate goffe, coi pantaloni di cotone blu perennemente scivolati sotto il girovita per via della pancia e un incedere plantigrado a gambe larghe, un po’ per rilassare gli arti a lungo fissi sui pedaloni di ferro dei comandi, un po’ per garantirsi un appoggio a terra più affidabile. Ma gli resta sempre la sensazione un po’ ansiogena di essere fuori posto, di non saper bene dove andare, e far cosa, poi?, sino al momento di risalire, finalmente!, sul bestione, vero habitat naturale e fedele compagno di viaggio. Sì, perché nel viaggio, anche da dentro una gabina di lamiera, anche dalla modesta altezza del posto di guida, si gode una gran bella vista sul mondo che un banale pedone nemmeno si sogna.
Invece al gruista le vertigini gli vengono proprio per davvero. Naturalmente trattasi di vertigini all’incontrario: gli vengono se scende giù in basso. La cosa ha una spiegazione scientifica: a furia di starsene appeso a 100 metri su nel cielo, un certo punto il suo metabolismo basale si scassa e diviene schiavo delle glandole; se scende giù, la terra gli balla sotto i piedi come un mare, la realtà non ha più consistenza, solidità, certezza. A camminare prova la stessa fatale insicurezza di Pietro sulle acque del lago di Tiberiade. Il gruista non è di quelli che gli piace starsene comodi e tranquilli e compiaciuti nel mondo ingiusto fregandosene. Per lui il bello è tutto. E questa attrattiva del bello, la gran bella vista, sprigiona anche dai suoi occhi trasfigurati: tant’è che, affacciata negli occhi del suo gruista, la donna del grattacielo da quegli occhi e da quella poesia non si stacca più. E’ un grande rischio, il suo. E’ il rischio della vita. Come il viaggio dei camion e rimorchio a pieno carico sulla Cisa verso Roma o sui Giovi. E infatti arriva a un pelo dallo schiantarsi al suolo, ma l’abile manovratore la riprende in tempo - e per sempre - con il gancio di ferro. Nelle mani sue mani di uomo innamorato del bello, la gru si trasforma da strumento di fatica bruta e di lavoro putrellesco in àncora durevole di salvezza. In Nigeria, Kenia, Somalia, Libia i Fiat 682N, messi fuori produzione in Italia nel 1970, circolano ancora. Qualcuno di questi “re d’Africa” ha percorso l’incredibile distanza di 10 milioni di chilometri. Gente che si vedeva davanti un cammino, duro e glorioso di ferraglia e poesia, lungo una vita; non aspettava miracoli risolutivi dalle magie mediatiche di un qualche deus ex machina.