Il sacramento dell’immagine
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Ogni teoria cristiana dell’arte sacra deve rispondere alla domanda che deriva dal secondo comandamento del decalogo dell’Antico Testamento: “Non farti idoli e nessuna immagine di quello che sta nell’alto dei cieli e di quello che sta in basso sulla terra” (Es 20,4). Questo divieto ha un significato molto profondo, esso infatti chiude ogni via ad ogni facile soddisfazione della sete spirituale, ad ogni equiparazione dei diritti dell’essenza alla visibilità. Per la fede non è bene accettare troppo leggermente l’idea dell’immagine sacra, perché allora non sarà chiaro dove ha termine la norma della fede ed ha inizio la convenzione artistica.
Come sappiamo, la tradizione ortodossa dell’iconografia è stata fondata da Bisanzio ed occorre tener presente che la stessa Bisanzio è stata l’origine della terribile ed impetuosa dottrina iconoclastica e del movimento radicale iconoclastico, secoli prima che la teologia occidentale della Riforma protestante introducesse qualche cosa di simile. In questo consiste la misteriosa forza dell’icona bizantina: In Bisanzio toccò all’ortodossia di opporsi all’assalto dell’iconoclastia, prendendo in considerazione gli argomenti degli avversari e trovando una risposta adeguata e costruttiva. Questo significa che il divieto biblico in sostituzione del realismo spirituale con il gioco dell’immaginazione, fu considerato seriamente e profondamente appropriato.
La pratica dell’iconografia ricevette allora un accurato fondamento teologico così che abbiamo il diritto di parlare dell’evento della ‘teologia dell’icona’. La parola icona deriva, come è noto, dalla parola greca ‘eikon’ (immagine); nella lingua della tradizione ortodossa è una parola chiave con un significato di una ricchezza straordinaria. Essa si applica non solo alla produzione dell’arte sacra; essa è un termine principalmente teologico. “Veramente tutte le cose visibili sono immagini visibili (cioè icone, eikones) delle cose invisibili”, come ci insegna il grande teologo del V secolo, giunto a noi sotto il nome di Dionigi Areopagita. Tutto quello che passa, ha detto Goethe, è soltanto una allegoria (Alles Vergangliche isrt nur ein Gleichnis. Se vogliamo esprimere questa esperienza nella lingua della teologia bizantina, dobbiamo dire che il mondo creato da Dio è un’icona. Ma questo può essere vero oltre i confini del transitorio, perfino oltre i confini del creato. Il Figlio di Dio, che nel simbolo della fede è confessato come “generato non creato” è chiamato da S. Paolo immagine (icona) del Dio invisibile (1 Cor 15; 2 Cor 4,4). Attraverso questo la teologia dell’icona ottiene il suo fondamento cristologico, cristocentrico. All’inizio della prima lettera dell’apostolo Giovanni leggiamo: “Di ciò che fu fin dall’inizio, di ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi e toccato con le nostre mani, del Verbo della vita, lo annunciamo a voi …” Solo per il fatto che il soprannaturale per eccellenza si à mostrato in forma umana, si è mostrato visibile agli occhi umani e toccato dalle mani dell’uomo, solo per il fatto che il Verbo della vita si è fatto carne, da un punta di vista ortodosso, la pratica dell’iconografo può essere giustificata come legittima espressione della fede, come è stato formulato molte volte, ai tempi delle diatribe iconoclastiche, dai difensori dell’iconodulia. E anche più tardi questi principi del realismo mistico sono stati ricordati. Per esempio la dottrina rigorosamente ortodossa ha negato di principio la possibilità di rappresentare Dio Padre nell’aspetto di un venerando vecchio dalla barba e dai capelli bianchi. Simili rappresentazioni della Prima Persona della Santissima Trinità apparvero relativamente tardi e suscitarono proteste. L’iconografia che si richiama al “vecchio dai molti giorni” (Dan 7,9) fu espressamente condannata nel concilio locale di Mosca nel 1551 (Il così detto concilio dei cento capitoli). Questo divieto, in seguito dimenticato, conserva ancora la sua validità in quanto fedele alla logica del realismo mistico: “ Dio nessuno lo ha mai visto” (Gv 4,12) e l’unico volto umano che, secondo la legge, è possibile fare oggetto di rappresentazione e di pittura è il volto di Cristo: “Dio nessuno lo ha mai visto, l’unigenito Figlio di Dio che vive nel seno del Padre, lui lo ha manifestato” (Gv 1,18).
La dottrina ortodossa sull’icona è espressa in modo molto conciso in un’opera bizantina incompleta, scritta subito dopo il periodo iconoclastico: “L’indescrivibile Parola del Padre ha descritto se stessa attraverso l’Incarnazione da te, Madre di Dio, ristabilendo l’immagine deturpata nella primitiva immagine, permeandola con la sia divina bellezza; e noi, confessando la salvezza, riflettiamo l’immagine con la parola e con l’opera”. E’ dunque l’avvenimento a stabilire la vera trama della rappresentazione dell’icona ortodossa. Non la trascendenza divina in se stessa, in quanto questa può essere rappresentata per vie indirette offerte dal mito della fantasia e non attraverso la via del realismo mistico. Abbiamo appena visto quanto disprezzo abbia suscitato l’iconografia di Dio Padre, Per la fantasmagoria di Michelangelo, che giustamente si è meritato il titolo pagano di ‘divino’, soprattutto per il suo muscoloso Demiurgo sul soffitto della Cappella Sistina, in questo contesto mistico non può trovare nessuna legittimazione! Ma questo tema non può essere del tutto estraneo, umano, troppo umano, nella lingua biblica ‘carne e sangue – gesticolazione smodata di santi barocchi, il fascino contagioso di alcune Madonne occidentali, il comfort ordinario di alcune scene bibliche rappresentate dai grandi olandesi,
L’autentico tema raffigurazione per gli iconografi non è né più né meno che il seguente: la corporalità umana, la quale è trasfigurata, di più, divinizzata dalla presenza della natura divina nella Divinoumanità di Cristo e dall’azione delle energie divine nei santi cristiani. Come è stato espresso nelle definizioni dogmatiche del VII Concilio ecumenico, il concilio ultimo che fissò la comune tradizione sia per i cattolici che per gli ortodossi.
In questo modo la realtà, che da un punto di vista della iconografia tradizionale ortodossa è legittimamente rappresentata e quindi degna di essere raffigurata si colloca in un certo confine ontologico: fra l’immanente e il trascendente, fra natura e grazia, fra visibile e invisibile. Oppure, più precisamente non semplicemente al confine, ma in quell’unico punto dove questo confine insuperabile è superato dall’avvenimento della Incarnazione di Dio. La possibilità di rendere visibile il divino dipende totalmente da questo evento Per questo ogni icona fedele alla tradizione autenticamente ortodossa, anche quando raffigura la Madre di Dio, un qualche santo o qualche cosa di simile, sostanzialmente si riferisce a Cristo. Il fondo aureo dell’icona, il suo polo astratto, non figurativo, simboleggia la luminosa profondità della divinità; ma al centro si evidenzia il polo contrario, il volto. Questo volto racchiude in se stesso i tratti dell’astratezza, della statica, della schematicità che fanno ricordare l’arte sociale del Tibet e gli ‘antri’ induistici, e nello stesso tempo la tradizione del ritratto ellenistico: la simmetria dominante si equilibra con manifestazioni delicate, ma esteticamente efficaci di asimetria; la statica viene animata da un leggero movimento: di fronte a noi appare la rappresentazione del doppio mistero della Divinoumanità. Nello stesso tempo i tratti esatti del volto sono cosmici: il naso prolungato e sottile richiama alla mente l’albero simile alla nobile palma che si eleva e raffigura l’albero cosmico degli antichi riti. Sulla fronte ed attorno agli occhi si diffonde una luce non terrena come ‘l’idea’ di luce nel significato platonico della parola. I riccioli sono mossi da un primordiale soffio dello spirito, forse dallo Spirito che ‘in principio’ alitava sulle acque (Gen 1,2). Questo aspetto del cosmico che si può estendere fino alla simbolica della procedura tecnica dell’iconografia è ben motivato proprio dalla dimensione cristologica dell’icona; se perfino il primo Adamo fu creato da Dio, in un certo senso, come microcosmo, tanto più si addice a Cristo la dignità microcosmica, al ‘Nuovo Adamo’ (1 Cor 15,45), come in genere alla natura umana che ottiene in Cristo la sua trasfigurazione.