La scuola non è morta perché noi viviamo - 2 - Perché ricominciare?
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E’ terribile l’abitudine al suono della campanella, senza mai chiedersi perché!
Considerazioni sulla ripresa del nuovo anno scolastico.
La mia nuova avventura nella scuola è ricominciata da quindici giorni. Ci sono i volti delle alunne dell’anno scorso, con loro è ripreso un dialogo che non si è mai interrotto, provocato dalla domanda: “Perché vale la pena ricominciare questo nuovo anno? Da che cosa ricominciare?”
Poi ci sono gli sguardi delle nuove alunne, che quando entri in classe ti scrutano e sembrano chiedere: “Che tipo sarà questo qui? Cosa vorrà da noi?”
Per stemperare il clima mi presento: “Io sono Franco, e tu?”
“Io sono Clara, io sono Silvia, io sono Veronica…”
Poi la domanda: “Perché sei qui? Cosa desideri?”: di nuovo silenzio imbarazzato davanti a una domanda inaspettata; in dieci anni di scuola nessuno aveva mai chiesto una cosa così!
E’ terribile l’abitudine al suono della campanella, senza mai chiedersi perché!
La mia scuola è ricominciata così, esattamente come era cominciata per me circa 40 anni fa, anche se al di fuori di un’aula scolastica, perché anche i miei prof non si sognavano di farmi certe domande. E’ cominciata da un incontro fra il mio desiderio, la mia domanda e una ipotesi di risposta, fra il desiderio di un cammino e la proposta di un cammino insieme.
Quest’anno sulle pareti della classe ho proiettato la frase di C. Pavese: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”.
E’ la stessa frase che 40 anni fa qualcuno aveva proposto a me, commentandola con voce forte, decisa: “Pavese non ha capito che la vita è PROMESSA, che i nostri desideri costituiscono la promessa certa di una risposta!”. E aveva aggiunto: “Non abbiamo deciso noi di metterci in corsa, ma ci siamo ritrovati in corsa e questo significa che esiste una meta”.
Accade un incontro fra un ragazzo e un adulto quando quest’ultimo ha confidenza con la vita, quella confidenza che mi è stata trasmessa 40 anni fa, quando, grazie a quell’incontro eccezionale, mi è apparso improvvisamente evidente che era ragionevole attendere quel che nella mia vita avevo in qualche modo già intravisto: che io desideravo il bene, il bello, il vero, che io desideravo essere felice, amare e essere amato e che senza queste risposte non valeva la pena vivere.
L’esperienza di un giovane di oggi è segnata dalla tristezza e dallo scetticismo, come testimoniava l’altro giorno una mia alunna: “Come è triste dover constatare che mi faccio spesso delle domande a cui, purtroppo, non c’è risposta”. Un giovane oggi non intuisce più la cosa più chiara per un bambino: che mamma e papà sono coloro che devono rispondere ai suoi bisogni e alle sue esigenze; che quelle esigenze, quindi, costituiscono una promessa di risposta. Un giovane non intuisce più la positività dell’esistenza.
Per dire questa cosa riprendendo la frase di Pavese: noi attendiamo perché la nostra natura è promessa.
Il cristianesimo è entrato nel mondo come annuncio che quella PROMESSA si è resa presenza umana incontrabile, quindi sperimentabile e questo annuncio continua a sfidare lo scetticismo, l’incredulità e la tristezza del giovane di oggi.