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L’alunno, un dato in attesa: pedagogia della speranza - 2

Autore:
Mocchetti, Giovanni
Fonte:
CulturaCattolica.it
"Ogni docente comunica ciò che sa, trasmette del proprio sapere solo ciò che può essere ricevuto da un altro, ciò che può far iniziare nell'altro una vita nuova. Se almeno gli educatori agissero sul sicuro, nella certezza di frutti raccolti, ma non è così. Interviene sempre, per confondere i loro calcoli, la logica maliziosa della speranza: è necessario il più delle volte credere senza vedere, seminare senza raccogliere; è necessario sempre attendere. Ma a noi non piace attendere: cioè sperimentare la distanza tra i nostri progetti e le nostre opere, perché questa distanza è uno spazio di espropriazione, una specie di deserto che a volte siamo costretti ad attraversare senza risorse né punti di riferimento, per ricevere, come un dono, il frutto della nostra pazienza". (M. Léna)

Non siamo capaci di attendere perché siamo tentati da un moralismo irrealistico nei confronti dei ragazzi: ci scandalizziamo del loro linguaggio volgare, della loro istintività, della rapidità di cambiamento del loro umore, della ferocia con cui spesso giudicano noi adulti, della superficialità confusa, dell’immotivato disimpegno. Dà fastidio il mutevole e imprevedibile manifestarsi del “tempo segreto” dell’adolescenza, il mistero non catturabile, non definibile di questa età incompiuta. Poiché non possiamo possedere, razionalizzare tutto questo, allora siamo sempre in bilico tra autoritarismo e concessione paternalistica.
Se diventiamo esperti in realismo, cioè capaci di umanità vera, allora anche il nostro insegnare, la nostra didattica (qualunque sia la materia) cambia. Nella misura in cui la nostra posizione umana diventa più vera verso il ragazzo e noi diventiamo più “realisti” di fronte a lui, muta il metodo di approccio non solo nei riguardi della sua persona (tramite - come dicevo - il desiderio, l’attesa, lo sguardo, la pazienza), ma anche nei riguardi del modo di concepire e svolgere il nostro lavoro. Chi ha mai detto che, per rispondere al bisogno di conoscenza, identità, appartenenza, significato di un adolescente, si debba svolgere tutto il programma di una disciplina, o lo stesso programma in tutte le classi indipendentemente dalla storia che gli alunni hanno vissuto alle elementari o dalle risorse che possiedono? Il realismo pedagogico - didattico ci dice che si comunicano a tutti le nozioni e i contenuti necessari ad affrontare da protagonisti il reale (i ragazzi non devono uscire dalla scuola ignoranti), ma sul che cosa - come - perché - quando - questa classe acceda al bello, vero, giusto, buono nella tua disciplina, lo decidi tu, maestro, in un confronto stabile e affezionato con gli altri “maestri”. A tutti viene data la possibilità che ragione e cuore siano risvegliate tramite le nostre discipline, ma, siccome siamo realisti, dobbiamo accettare che una classe risponda in un modo, un’altra classe in un altro, perché la classe è formata dalla libertà di tanti “io” che rispondono, in tempi e modi diversi, all’offerta cordiale e generosa del nostro “tu”.
Così la didattica diventa “realistica”, cioè un’occasione umana di incontro tra un discepolo e il suo maestro, diventa l’affascinante avventura della trasmissione di un sapere che si rinnova sempre di fronte all’ “oggetto” (adolescente), diventa la straordinaria possibilità di lavoro di una comunità di maestri appassionati e tesi a comunicare ai ragazzi un sapere e una saggezza fondati sull’esperienza. Questi maestri sono sicuramente intessuti di limiti, ma questa posizione umana e didattica “realistica” è per loro un degno motivo per entrare in classe ogni mattina.

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