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Attraverso l’opera di Rebora: la Presenza.

Autore:
Bortolozzo Carlo
Fonte:
CulturaCattolica.it



Qual è il Clemente Rebora che torna a scrivere e a pubblicare versi alla metà degli anni Cinquanta? Non più l’inquieto poeta degli anni della Voce, della guerra e della drammatica ricerca degli anni Venti. Ora è don Clemente, che vive nei conventi rosminiani fra Domodossola, Rovereto e Stresa, tra insegnamento, preghiera e carità. Leggendo gli estremi doni della sua poesia, avvertiamo come le nostre categorie letterarie (già insufficienti per il primo Rebora), si rivelano completamente inadeguate. I nostri passi devono umilmente seguire i suoi, così come Rebora seguì i passi di un Altro. Poesia e carità diventano i poli infiammati della sua vita. Così, leggiamo in apertura dei Canti dell’infermità (‘55-’56): “Far poesia è diventato per me, più che mai, modo concreto di amar Dio e i fratelli. Charitas lucis, refrigerium crucis”. E poco oltre, in una lettera al fratello Piero, che lo sollecitava a tornare alla poesia: “La poesia… intesa in modo totale, ossia cattolico, è la bellezza che rende palese, come arcano riverbero, la Bontà infinita che ha sì gran braccia…” Il Buono e il Bello, la via veritatis e la via pulchritudinis tornano tomisticamente a congiungersi. Giunge a compimento anche l’anelito del poeta di scomparire, annullato misticamente nell’amore divino: “L’umiliante decompormi vivo/ sia l’indizio del Tuo vitale arrivo”, scrive nel novembre del 1955, già divorato dal male. Una delle poesie più alte della raccolta è Notturno, in cui vibra un ardore di immedesimazione con il Crocifisso: “Il sangue ferve per Gesù che affoca./ Bruciami! Dico: e la parola è vuota./ Salvami tutto crocifisso (grido)/ insanguinato di Te! Ma chiodo al muro,/ in fisiche miserie io son confitto./ La grazia di patir, morire oscuro,/ polverizzato nell’amor di Cristo:/ far da concime sotto la sua Vigna, / pavimento sul qual si passa”. Bellissime anche le poesie immediatamente successive, in cui l’abisso di miseria dell’uomo invoca l’abisso di misericordia di Dio (“l’abisso invoca l’abisso”).
Dalla sua finestra di infermo, Rebora vede agitarsi nel vento un “pioppo severo”. Ne nasce la splendida poesia che riportiamo:

Vibra nel vento con tutte le sue foglie
il pioppo severo:
spasima l’anima in tutte le sue doglie
nell’ansia del pensiero:
dal tronco in rami per fronde si esprime
tutte al ciel tese con raccolte cime:
fermo rimane il tronco del mistero,
e il tronco si inabissa ov’è più vero.

In questa vertiginosa corrispondenza di altezza e di profondità, coincidenti nel latino altus, nella tensione a riconoscere i segni di un Mistero che sprofonda nella realtà, riconosciamo la voce del Rebora più grande.
Nella breve, intensa autobiografia del Curriculum vitae, il poeta rievoca, grato, il suo percorso esistenziale; da quando, giovane ribelle urlava “ho sbagliato pianeta!”, dai traviamenti morali degli anni della guerra, quando egli si vedeva “spatriato quaggiù, Lassù escluso”, a quando riconobbe nella poesia una possibilità di salvezza, senza peraltro mai idolatrarla: “Quando morir mi parve unico scampo,/ varco d’aria al respiro per me fu il canto/ a verità condusse poesia./ Però non ogni canto è buon respiro,/ né tutti i versi fanno poesia”. Commoventi sono i versi in cui Rebora rievoca il momento lontano della conversione, durante la famosa conferenza al Lyceum di Milano nel ‘28: “Quasi maestro agli altri mi porgevo;/ ma qualcosa era dentro me severo:/ Ferma il mio dire, se non dico il vero./ E un giorno – nel salon pieno quant’occhi! -/ il discorso iniziato venne meno/ in una turbazion vicina al pianto: / la Parola zittì chiacchiere mie”. Dopo aver tanto gridato al Mistero, all’uomo giunge ora una voce che gli chiede di seguirlo. Attraverso un’eco dell’amato Dante, il poeta spiega che “Riamato l’Amor, l’Amor vuol tutto./ E venne il giorno, che in divin furore/ la verità di Cristo mi costrinse/ a giustiziar e libri e scritti e carte:/ oh sì che quello fu un gran bel stracciare! Allor che quanto m’era il più del male/ ridotto fu a un lacerato ammasso,/ mi sentii lieve in libertà felice”.
Nel testo successivo, Rebora porta a sintesi il suo percorso umano e culturale: “santità soltanto compie il canto”. E nell’Epigrafe conclusiva: “Dopo aver agognato alle cime,/ e perso vita per viver sublime,/ grazia m’è data di far da concime”.

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