Clemente Rebora: il grido e la presenza
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Voglio innanzitutto indicare la prima nota che mi ha colpito nel leggere tanti anni fa per la prima volta Clemente Rebora. E' la sua positività di uomo buono (si è convertito molto dopo la sua produzione forse anche migliore), una positività di fronte al disegno misterioso delle cose, o meglio, l'affermazione della positività del disegno misterioso. Rebora afferma un disegno, e quindi intuisce un'intelligenza nelle cose, misteriosa perciò ineffabile, non dicibile, non decifrabile, ma comunque positiva.
Mi sembra che si possa definire questo primo impatto con la poesia di Clemente Rebora l'impatto con un uomo povero; perché il «pauper evangelicus», il povero del Vangelo, è chi non avendo nulla da difendere - come diceva Dostoevskij - di fronte alla verità, registra la realtà, e la realtà si presenta come disegno (perfino a Kant veniva un dubbio sulla bontà della sua Critica della ragion pura guardando il cielo stellato). [L. Giussani, Le mie letture, BUR]
Clemente Rebora (Milano 1885 – Stresa 1957) costituisce senz'altro una delle voci più alte della poesia italiana del Novecento. Singolare e drammatico il suo itinerario esistenziale. Proveniente da una famiglia di tradizione laica e mazziniana, non ricevette un'educazione religiosa; laureatosi in Lettere, frequentò gli ambienti della rivista "La Voce", diretta da Prezzolini, che nel 1913 gli pubblica la raccolta Frammenti lirici; verrà poi l'esperienza della guerra, combattuta in prima linea sul fronte goriziano; lo scoppio ravvicinato di una mina incrina il suo sistema nervoso già fragile. Al ritorno, si dedica all'insegnamento in scuole serali o tecniche, dando voce a un disagio esistenziale e ad un'ansia di servizio. È legato da un'affettuosa amicizia alla pianista russa Lidia Natus, che gli farà conoscere e tradurre alcuni grandi classici russi: è una relazione che si interromperà di comune accordo nel 1919, anche se Rebora conserverà stima e affetto per la donna. Crescono intanto i suoi eclettici interessi religiosi, che lo portano ad avvicinarsi anche allo yoga e al buddismo. Nel 1922 pubblica la seconda silloge, Canti anonimi, in cui confluiscono le nuove esperienze e i nuovi interessi. Si approfondiscono intanto le esigenze pedagogiche e morali: tiene corsi e conferenze, dirige collane editoriali rivolte ad un vasto pubblico. La svolta avviene a Milano nell'autunno del 1928: all'interno di un corso sulla storia delle religioni, a Rebora è affidato il commento degli Atti dei Martiri Scillitani: il poeta stava leggendo la narrazione del sacrificio dei giovani i quali, dinanzi alle profferte del proconsole romano, affermano con coraggio la loro fede fino ad affrontare la morte. Riviviamo quel momento secondo il resoconto che ne dà suor Margherita Marchione, autrice di una fondamentale monografia sul poeta lombardo: "Rebora non poteva più andare avanti. Esitò, si sforzò. La vista gli si annebbiava. Qualche cosa gli stringeva la gola. Si prese la testa fra le mani. Si sentì smarrito. Non fu capace di proseguire. Dovette interrompere la conferenza" [1]. Nell'anno successivo Rebora riceve la prima Comunione dalle mani dell'arcivescovo Schuster; frequenta il Collegio Rosmini a Stresa, poi nel 1931 è novizio a Domodossola, dove viene ordinato sacerdote dell'ordine rosminiano nel 1936. Nel voto emesso chiede a Dio di "patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell'opera del tuo amore". Vive con questo spirito gli incarichi di insegnamento e di carità che gli vengono affidati, rinunciando completamente alla poesia, se non per qualche richiesta particolare dei superiori. Per più di vent'anni non resta più traccia del poeta che aveva folgorato con versi straziati e violenti i primi anni del secolo. Ma nel 1952 a Stresa è colpito da un malore cerebrale, rivelatosi sempre più grave, fino a costringerlo all'infermità totale. Sullo strazio di questa condizione, cristianamente accettata, rifiorisce il miracolo del canto: nel 1955 scrive un'intensa autobiografia in versi, il Curriculum vitae; nel 1957 escono i Canti dell'infermità, estrema testimonianza di vita e di poesia.
Fin dai suoi esordi, Rebora aveva stravolto il linguaggio poetico, sollecitandolo "a farsi azione", quasi scagliandolo contro la realtà, dichiara Mengaldo [2]; per molti anni la sua voce aveva taciuto, risolvendosi nell'azione caritatevole. Ma sarà la malattia "a riportare la poesia nel cuore di don Clemente, e proprio perché veniva meno la possibilità di tradurre in azione la sua carica d'amore", chiosa opportunamente Gioanola [3].
Il nesso vita-poesia si presenta dunque fondamentale in Rebora, come in molti autori del primo Novecento: è sufficiente rimandare a Ungaretti, per ricordare un caso a lui vicino per clima culturale ed esistenziale. Per il poeta lombardo, lo sottolineano bene gli eccellenti curatori del volume che raccoglie l'intero corpus reboriano: lo storico editore Vanni Scheiwiller e il critico Gianni Mussini [4]. La prima raccolta, Frammenti lirici, è tutta pervasa da una fortissima tensione linguistica e morale, tanto che spesso i poeti "vociani" vengono definiti "moralisti"; il frammento del titolo serve a evocare l'intensità debordante delle singole liriche, ma non rende ragione della compattezza, addirittura "poematica" del libro, come ha notato giustamente Mengaldo.
Si tratta in ogni caso di una spasmodica ricerca di significato dell'uomo Rebora, che ha fatto parlare di un autore intimamente cristiano anche prima della conversione; si invocano, in tal senso, la condotta ascetica della vita e la generosità con cui il poeta si prodigava in favore dei poveri, tanto da venire considerato una sorta di santo laico. Giustamente, però, Mussini fa notare come questo atteggiamento etico, strenuamente volontaristico, sia di marca tutta laica e mazziniana, fedele alla formazione ricevuta in famiglia, e che "proprio per questo non risolve il problema fondamentale del perché del bene: piuttosto lo acuisce. Il filantropismo non basta, non è – in ultima analisi – ragionevole" [5]. Un problema, quello della giustificazione del bene, che attanagliò tutta la vita di Rebora, fino a determinarne, probabilmente, la conversione al cattolicesimo; siamo dinanzi a un punto decisivo che attraversava, e forse attraversa tuttora, l'intera coscienza culturale moderna. Un riflesso interessante lo troviamo nell'opera del grande drammaturgo norvegese di fine Ottocento Henrik Ibsen, coscienza di una mentalità protestante ascetica e rigorosa, forse non molto lontana dal moralismo mazziniano che nutrì il giovane Rebora. Nel suo dramma Brand, Ibsen conclude l'opera con le parole disperate del sacerdote protagonista: "Rispondimi, o Dio, nell'ora in cui la morte mi inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?" [6].
Cosciente di questa contraddizione, il poeta spinge la sua ricerca nella direzione di un maggiore solidarismo e di un drastico ridimensionamento dell'io; Mussini fa notare che il titolo per esteso della seconda silloge è Canti anonimi raccolti da Clemente Rebora, a indicare tale volontà di ripiegamento, già intuita da Mengaldo, che sottolinea a sua volta "l'impersonalità e l'anonimato cui tende la voce del poeta, in un eroico tentativo di risolvere e quasi rifondare il radicale individualismo etico dell'uomo" [7]. Anche lo stile si fa meno aspro e "petroso", mitigando l'espressionismo della prima raccolta, per piegare verso scelte di valore simbolico. Dopo un lungo silenzio, incalzato dalla malattia, Rebora, ormai don Clemente, torna alla poesia con il Curriculum vitae (del '55) e i Canti dell'infermità (del '57, a pochi mesi dalla morte). Discorde il giudizio della critica su quest'ultima produzione: a Contini, pure grande estimatore del poeta, tanto da considerarlo una delle personalità più importanti dell'espressionismo europeo, gli ultimi versi paiono "meno decisivi" [8], mentre Raboni considera il lungo silenzio di Rebora come un ponte, che congiunge "il poeta di prima al poeta di poi", rinvenendo nelle ultime opere non un allentamento, ma una "tensione tutta verticale" [9]. Riepiloga ottimamente ancora Mussini: "la tensione verso Dio è il cuore di queste liriche, una tensione mai pienamente soddisfatta ma nutrita dalla speranza: di qui l'assenza di quell'inquietudine profonda che aveva caratterizzato il primo Rebora, non però di quell'ardore… La tensione si fa insomma centripeta (il Centro che spiega tutte le cose), da centrifuga qual era all'inizio" [10].
Note
[1] M. Marchione, L'immagine tesa. La vita e l'opera di Clemente Rebora, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1960, pp. 77-78. Utile anche il volume delle Lettere, I (1893-1930), a cura della stessa M. Marchione, con la prefazione di C. Bo, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1976. Per un aggiornamento bibliografico: E. Grandesso, Una parola creata sull'ostacolo. La fortuna critica di Clemente Rebora 1910-1957, Marsilio, Venezia 2005.
[2] Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1978, p. 251.
[3] Poesia italiana del Novecento. Testi e commenti, a cura di E. Gioanola, Librex-Marietti, Milano 1986, p. 166.
[4] C. Rebora, Le poesie, a cura di V. Scheiwiller e G. Mussini, Garzanti, Milano 1988, p. 502.
[5] G. Mussini, Profilo biografico, in C. Rebora, Le poesie, cit., p. 558. Lo ha ben chiaro lo stesso Rebora, quando riafferma, in una lettera del 1930, "la verità di Cristo e della Sua Chiesa contro l'involontario ma gravissimo errore contenuto nelle teorie mazziniane", in C. Rebora, Lettere, cit., p. 627. [6] H. Ibsen, Brand, BUR, Milano 1995, p. 240.
[7] P.V. Mengaldo, in Poeti italiani…, cit., pp. 252-3.
[8] G. Contini, Letteratura dell'Italia unita, Sansoni, Firenze 1968, p. 705
[9] G. Raboni, La modernità di Rebora, "Psychopathologia", Edizioni del Moretto, Brescia 198, cit. in C. Rebora, Le poesie, cit., p. 606.
[10] G. Mussini, Profilo biografico, in C. Rebora, Le poesie, cit., pp. 556-557. Recentemente anche E. Grandesso, sulla scia di altri studiosi, sostiene la sostanziale complementarietà dell'ispirazione reboriana in Fede e poesia: ma non ci sono due Rebora, in "Avvenire", 21 dicembre 2005.