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Preziosi come gli elefanti bianchi

Autore:
Mereghetti, Claudio
Fonte:
CulturaCattolica.it
Preziose riflessioni a margine della lettura del racconto Colline come elefanti bianchi di E. Hemingway.
Ottima lettura anche per queste vacanze.

Colline come elefanti bianchi è un breve racconto, un bozzetto, giustamente famoso, di cinque pagine, costituito pressoché tutto dal dialogo tra due giovani che aspettano il treno in una stazione della provincia spagnola, tra Barcellona e Madrid.
I due sono fidanzati. Lei è incinta. Lui, “l’americano”, vuole convincerla ad abortire. Il dialogo coglie le ultime, deboli, emotive, resistenze della ragazza e poi la sua sconfitta. Che segna probabilmente anche la fine di questo rapporto. Il racconto è tutto qui: due personaggi, due amanti, in primo piano e un protagonista silenzioso e invisibile, senza diritto di parola, ma – come vedremo – metaforicamente presente fin dal titolo, sfondo reale e ideologico del racconto, destinato ad essere vittima perché difeso dal più debole, da chi alla fine, del racconto e della storia, riesce solo a dire: “Mi sento benissimo. Tutto va bene per me. Mi sento benissimo”.
Un unico altro personaggio, la donna che serve al bar della stazione dove i due siedono a bere qualcosa. Nessun testimone: solo, intorno, l’assolato bianco paesaggio della valle dell’Ebro.




“Le colline che attraversano la valle dell’Ebro erano estese e bianche. Da questo lato non c’era ombra né alberi e la stazione sorgeva tra due linee di binari nel sole. Al lato della stazione c’era la calda ombra dell’edificio e una tenda fatta di file di grani di bambù pendeva attraverso la porta aperta del bar per non fare entrare le mosche. L’americano e la ragazza che era con lui sedettero a un tavolino all’ombra, fuori dell’edificio. Faceva molto caldo e l’espresso di Barcellona sarebbe arrivato dopo quaranta minuti. Si fermava a quella stazione per due minuti e proseguiva per Madrid”.



Così si apre il racconto. Fa molto caldo, non c’è ombra e quella che c’è è anch’essa calda, ci sono quaranta minuti di attesa sospesi tra Barcellona e Madrid, poi nel breve volgere di due minuti, una volta saliti, il treno riprenderà la sua corsa sui binari nel sole.
Un’attesa, piuttosto lunga, e una decisione da prendere in poco tempo: come nella vita.
A partire da questa ordinaria e arida provincia spagnola, metafora di una società intera, il racconto si rivela una vera provocazione per il lettore. Ogni battuta del dialogo un pugno nello stomaco, non già perché sorprendente, ma al contrario proprio perché comuni, già sentite, e perché nella apparente normalità con cui si svolge questo dialogo svela le più nascoste e intime contraddizioni di ogni lettore, e di tutta la società.
A cominciare da questo: che, nel racconto, come nella nostra società oggi, non si nomina mai il bambino che non nascerà, addirittura non si pronuncia mai nemmeno la parola aborto.
Vi si allude, soltanto.
Lui, l’americano, ne parla come di un problema. Di una cosa. Di un ostacolo alla felicità. E ragiona con realismo positivista sui possibili mezzi per eliminarlo, lui, l’americano senza nome.
La ragazza, Jig, invece, guarda “lontano, attraverso le colline”, incerta, poi dice: “sembrano elefanti bianchi”. Colline come elefanti bianchi, un titolo che è una doppia similitudine, con una parte “in chiaro”, esplicita; e una seconda parte “criptata”, originata si direbbe dall’inconscio della ragazza, e decifrabile solo a mano a mano che il dialogo si sviluppa e rivela al lettore che gli elefanti bianchi e le colline, in realtà, rimandano alla vita nascente, nascosta nel grembo materno.


I due si siedono al bar della stazione a bere qualcosa. Ma la scelta della bibita li fa discutere. Lei arriva a dire che tutto sa di liquirizia, “specialmente tutto ciò che si è atteso a lungo, come l’assenzio”. Lui si arrabbia. Lei guarda ancora lontano, guarda ancora le colline, che le ricordano la pelle degli elefanti bianchi.
Lui, l’americano, le colline non le vede nemmeno. Figuriamoci paragonarle a elefanti bianchi, coglierne il valore simbolico, cui la ragazza sembra alludere. Lui ha ormai perso contatto con la realtà: non vede la calda, bianca, arida terra della valle dell’Ebro, ma solo ciò che per lui rappresenta un problema, la cui esistenza è un problema. E sa perfettamente ciò che è più utile, conveniente, per lui.
Lui, l’americano, comincia a descrivere la tecnica, indolore, con cui si può evitare la gravidanza indesiderata.
Lui, davanti a sé, ha solo quell’intervento: “è davvero un’operazione semplicissima, Jig. In verità non si può neanche chiamare un’operazione”. E poi aggiunge: “So che non ci penseresti neanche, Jig. Non è proprio niente. Si tratta solo di lasciare entrare un po’ d’aria”.


L’americano è un vuoto fatto persona, assennato e lungimirante, freddo ed egoista: tanto razionale e distaccato nel difendere le proprie ragioni quanto meschino nel tentativo di convincere la ragazza, alla quale arriva a dire che per lei farebbe qualunque cosa.
E qui la ragazza, siamo quasi alla fine del racconto, chiede all’americano di tacere, ripetendogli per sette volte (in alcune traduzioni, però, ne riportano solo tre, ma sono più che sufficienti) “ti prego”. Sette volte, cioè infinite, forse troppe, ma qui – in questo racconto – sono il numero esatto di volte che servono per rivelare la meschinità di chi ha una sola preoccupazione e per far emergere, in un ultimo slancio, l’energia vitale e generosa di chi non sa più come difendere qualcosa (qualcuno) che sente vivo e prezioso in sé, come un elefante bianco.


Per lei, Jig, a questo punto il problema è come sarà dopo. E lui, con falso affetto, la conforta: “Staremo bene, dopo. Come stavamo prima”. “E’ la sola cosa che ci rende infelici”. “Non devi aver paura. Ho conosciuto tante persone che lo hanno fatto”.
Non ha argomenti. L’americano, e tutti quelli come lui.
Hemingway riesce là dove nessun saggio di etica è mai riuscito: dimostra che chi vuole abortire non ha argomenti, al di fuori del proprio cieco egoismo. E a questo punto che l’americano giunge fino alla manipolazione del concetto di libertà:



“Bene, se tu non lo desideri, non farlo. Non vorrei fartelo fare se non lo desideri. Ma so che è semplicissimo”.
“E tu lo vuoi veramente?”.
“Penso che sia la miglior cosa da farsi. Ma non voglio che tu la faccia se non la desideri veramente”.
“E se la facessi sarai felice… e mi amerai?”.
“Ti amo anche ora. Lo sai che ti amo”.
“Lo so. Ma se lo facessi, dopo sarà di nuovo carino che io dica che le cose sembrano elefanti bianchi?”.
“Mi farà piacere. Mi fa piacere anche ora, ma non ho la testa da pensarci. Sai come divento quando sono preoccupato”.
“Ma se lo faccio non sari preoccupato”.
“Non potrei: è una cosa semplicissima”.
“Allora lo farò. Tanto non m’importa niente di me.”



E’ un dialogo crudo, ma straordinariamente vero. Sembra di sentirli. Il racconto si dipana come una perfetta macchina narrativa, ma il lettore si accorge che non è più soltanto un racconto, che anche nella vita vera succede così, e che il modo è così meschino. Stiamo dalla parte della ragazza dal momento in cui lui, l’americano le dice “per te farei qualunque cosa”, e ci rendiamo conto che l’unica cosa che vuole è farla abortire, e che i suoi argomenti sono gli argomenti più diffusi e condivisi oggi per convincersi che è una buona scelta. Ma letti, nel racconto di Hemingway, sono così meschini. Così veri e così chiaramente meschini.



“Capisco – disse la ragazza – Possiamo stare un poco senza parlare?”.
Sedettero di nuovo al tavolino e la ragazza guardava le colline dalla parte arsa della vallata e l’uomo guardava lei e il tavolino.
“Devi capire – egli disse – che non voglio che tu lo faccia se non lo desideri. Sono pronto a venire fino in fondo se la cosa interessa a te”.
“E a te non interessa? Potremmo continuare così”.
“Naturalmente interessa. Ma non desidero altro che te. Non desidero nessun altro. E so che la cosa è semplicissima”.
“Sì. Sai che è semplicissima”.
“Tu lo dici senza convinzione, ma io lo so”.
“Vuoi fare qualcosa per me, ora?”.
“Qualunque cosa”.
“E allora. Ti prego, ti prego, ti prego… vuoi smetterla di parlare?”.



Colline come elefanti bianchi, animali che erano un dono regale dei siamesi ai cortigiani, animali sacri per i quali le famiglie erano disposte ad andare in rovina pur di mantenerli in vita. Ecco il valore simbolico del titolo, ecco il significato della doppia metafora: i bambini non desiderati sono come gli elefanti bianchi. Sono preziosi. La loro esistenza è preziosa. Per la loro esistenza si dovrebbe decidere di andare anche in rovina. Come per gli elefanti bianchi… o almeno come si fa per coscienza ecologista a favore di alberi minacciati…
Ma lo si può fare quando intorno tutta una società ti consiglia di lasciar perdere?
No, per poterlo fare occorre che tale valore sia riconosciuto. Che sia condivisa la certezza di trovarsi di fronte a qualcosa di prezioso.


Il racconto di Hemingway sottintende dunque questa domanda: com’è possibile agire contro il “così fan tutti”, il “tanto peggio tanto meglio”, il “in fondo non c’è niente di male”, o peggio il “fai pure quello che vuoi, ma così è più facile…”?
Come si può resistere, quando senti dentro di te che fare qualcosa, che pure è propagandato (e condiviso) come fattibile, semplicissimo da farsi, e utile a te e agli altri, non ti sembra fino in fondo giusto e ti fa star male?
Quando senti dentro di te, che pure non sei un rivoluzionario, che in questo tutto permettere, tutto giustificare in nome dell’utile e del piacere personale, c’è qualcosa che ti fa sentire a disagio, qualcosa che a volte è indefinibile, ma che comunque tu senti in te: ecco in questi casi come è possibile andare contro una società così e difendere la propria libertà?
Hemingway lo dice chiaramente, e amaramente: oggi non è tempo da eroi.
Jig, la ragazza, esce sconfitta dal dialogo con l’americano che non merita nemmeno un nome. La realtà, preziosa, di un bambino che ancora deve nascere, è invisibile agli occhi di chi sa che sbarazzarsene è cosi comodo e facile. Elefanti bianchi… valori preziosi, da difendere, anche in solitudine, in eroica solitudine, anche a costo di rinunciare a una falsa libertà.


Insomma questo racconto di Hemingway ci spinge a riflettere sul valore della libertà e a verificare se è il valore più importante. Ci impone di domandarci se è meglio vivere in una società che accetta l’aborto, appunto in nome della libertà. Se è veramente più libera una società in cui una legge consente a un essere umano di decidere di un altro essere umano (o, che è lo stesso, ma è più facile da accettare, che permette a una donna di scegliere se tenere o no il proprio figlio).
Perché, allora, allo stesso modo è veramente meglio vivere in una società che lascia libertà di drogarsi. Ma allora, perché non lasciare libertà di uso del casco in moto o delle cinture in auto? E ancora: si dovrebbe lasciare libertà di scelta per la pena di morte? O, che è lo stesso, lasciare libertà di scelta a un cittadino di uccidere, a uno Stato di fare guerra?
Perché in questi casi ci sentiamo di dire che la legge può permettersi di impedire che qualcuno pensi e agisca diversamente da come il diritto vivente stabilisce? E perché noi possiamo definire tali atti ingiusti?
Perché quelli sono valori assoluti, è la risposta più sensata. Ma allora chi determina che quelli sono valori assoluti? O ancora meglio: chi determina che proprio quelli e non altri sono valori assoluti?
Ci sono due sole risposte, ci è stato insegnato: o qualcosa che è dentro l’uomo o qualcosa che non è nell’uomo. Se è qualcosa che è nell’uomo, allora questo diritto lo hanno tutti. La/le maggioranza/e. E anche le minoranze. E anche i singoli. Tutti i singoli. Nessuno escluso. Perché quello che oggi ci può apparire aberrante (che ne so? la pedofilia) potrebbe non esserlo domani.
Può una società civile e solidale fondarsi su questo principio? In nome di che cosa ci si potrebbe opporre al razzismo? E se ci fosse una società che su questo principio si fonda, dovremmo consentirle di continuare a fondarsi su di esso? O sulla schiavitù? O sullo sfruttamento della donna, dei bambini?
Qualcuno di noi in una società simile potrebbe non trovarsi tanto bene, non sentirsi fino in fondo veramente felice. E allora che cosa potrebbe fare? La risposta, a me pare, è ancora una volta quella di Mann, nella Montagna incantata: una intimità morale che è di natura eroica, o una robusta vitalità.


Ma, solo per il gusto della discussione, proviamo a immaginare se con l’altra soluzione funzionerebbe meglio: se cioè a determinare gli assoluti fosse invece qualcosa che sta fuori dell’uomo. In questo caso, pur trattandosi di doverlo cercare, una volta trovatolo avremmo ancorato un principio etico, morale, a un solido fondamento, inattaccabile. Che lo si chiami ratio, come faceva Cicerone, o che lo si consideri un essere dalle caratteristiche super-umane, non cambia la sostanza del discorso.


Pace-guerra.
Razzismo-umanità.
Fedeltà-infedeltà.
Sincerità-menzogna.
Difesa della vita-libertà di uccidere.
Non la maggioranza, né le scelte personali, possono determinare quali tra questi siano valori, siano assoluti, quali no, o semplicemente che cosa sia meglio. Ciò che è meglio, giusto, assoluto, lo è, e lo deve essere per tutta l’umanità, per tutti gli esseri umani, i quali poi possono, certo, scegliere di comportarsi diversamente, poiché hanno il libero arbitrio, ma sapendo ciò che fanno. Se una guerra, una guerra, se un tradimento, un tradimento, se un aborto procurato, un omicidio.
In una società che, discutendone, modifica le proprie leggi alla ricerca di questi principi razionali, di questa ratio, metastorica e metafisica, sempre reale e concreta, io sento che vivrei meglio, più felice, e forse con una minor necessità, per vivere la giustizia, di comportamenti eroici.


Colline come elefanti bianchi: Hemingway lo sapeva per esperienza diretta.

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