L’obbedienza è ancora una virtù – 2 – E don Milani allora?
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Siccome non avevano la possibilità di andare a vedere il mare, aveva fatto scavare una piscina nel cortile della scuola di Barbiana; don Lorenzo Milani amava profondamente il destino dei figli dei contadini del Mugello e desiderava che acquisissero quella conoscenza che delle ottuse funzionarie pubbliche non consegnavano agli alunni, pur avendo il titolo di professoresse; così il sacerdote nel 1967 raccolse questi ragazzi, condivise un rapporto con loro e li lanciò nell’umana avventura del sapere, educandoli, cioè introducendoli alla totalità della realtà, mettendo all’ingresso della scuola “I care” (“Mi sta a cuore”).
Tutto questo fece obbedendo a Cristo e alla Chiesa cattolica fiorentina, perché don Milani non avrebbe potuto chiedere ai suoi ragazzi di seguirlo in questa avventura educativa, se lui stesso non si fosse fatto discepolo di quella compagnia ecclesiale a cui apparteneva per vocazione; diceva che l’obbedienza non è più una virtù, nella misura in cui l’istituzione (in quel caso era il servizio militare) mortifica la coscienza ed il cuore dell’io; ovvio che la sinistra sessantottina, ormai incipiente, avesse strumentalizzato la scuola di Barbiana con tutta la sua ventata di coraggiosa novità pedagogica a fini ideologici, trasformando l’esperienza di don Milani in una bandiera antiautoritaristica che egli stesso non aveva mai voluto essere.
L’obbedienza non deve giustamente essere praticata come un valore da parte dell’alunno, quando non sa a chi e perché obbedire, nella misura in cui questo gesto sia l’espressione di un dovere formale, di un’acquiescenza timorosa indotta dalla paura; l’alunno non deve obbedire a degli adulti che si nascondono dietro un ruolo usato come potere per esercitare la loro autorità; infatti, ormai noi tutti sappiamo che l’autorità vera si riconosce, non s’impone, cioè l’alunno obbedisce ad una presenza cordiale e precisa, severa e tenera ad un tempo, credibile e convincente tramite la sua vita, più che con le parole.
Il discipulus obbedisce a un magister, il figlio dipende dal papà e dalla mamma, cioè i ragazzi stanno e seguono la consistenza di un io umano adulto, di qualcuno riconoscibile, quotidianamente identificabile come la roccia contro cui il loro istinto non potrà mai prevalere, perché questo io adulto è innanzitutto se stesso, crede in quello che dice e fa, è profondamente appassionato alla totalità della realtà a cui vuole introdurre il giovane, si concepisce sempre umilmente in unità con altri adulti; questo educatore adulto è teso a formare una tenace compagnia educante da cui il ragazzo viene costantemente stanato con la sua ragione ed il suo cuore, affinché aderisca con le sue energie al bello, al vero, al bene che dei “master and commander” ogni giorno gli fanno intravedere con la propria presenza .
“…che io non possa ridurre il reale al pensabile, ecco il trionfo della libertà possibile; paradossalmente, solo perché non mi sono fatto da solo, io posso essere libero; se mi fossi fatto da solo, avrei potuto prevedermi e , in tal modo, avrei perso la mia libertà. Essere fedeli alla realtà delle cose, nel bene e nel male, implica un integrale amore per la verità e una totale gratitudine per il fatto di essere nati…” (Hannah Arendt).
Una delle più grandi e coraggiose virtù da imparare e praticare oggi è quella di stare di fronte al reale così com’è, con il suo fascio intrecciato di banalità noiosa e di sorprendenti imprevisti, di facce incontrabili accanto a manichini anonimi, di circostanze piacevoli insieme a quelle sgradevoli, insomma stare di fronte alla vita, perché come dice Lois Spears nei testi poetici di “Spoon River” di E. L.Masters “...ci vuole Vita per amare la vita…”.
La realtà non sono le istantanee che fissi sul tuo cellulare, né la Second life che ti crei sul computer o l’Ipod che ascolti ossessivamente per immergerti in una solitudine sognante da cui non vuoi essere separato.
La realtà non è quello che senti o pensi tu, per cui quando essa non corrisponde al tuo sentire e pensare scappi, ti camuffi o, peggio, cerchi in tutti i modi di cambiarla per adattarla a te; il reale è un dato e la tua libertà fa i conti quotidianamente con questo dato, altrimenti non ti accorgi nemmeno che i mostri sono solo le pale di un mulino a vento che t’infilzano come don Chisciotte, mentre applichi stolidamente le tue fantasie allo scandire dei giorni e al susseguirsi dei volti che si fanno incontro a te.
La realtà sono i libri e i quaderni, i numeri e le parole, la musica e l’affresco, la matita, la riga e la squadra, i tuoi maestri e i tuoi compagni, i tuoi genitori e la tua sorellina, i tuoi fumetti e il tuo pallone da calciare, la tua amica, il tuo amico; la realtà sono le tue esigenze più nascoste, quella per esempio di essere accettato per quello che sei e non per quello che gli altri vorrebbero che tu fossi; oppure il reale sono i tuoi limiti, le tue delusioni e sconfitte inattese; infine la realtà è una palestra straordinaria in cui esercitare tutte le qualità della tua giovinezza nell’impeto di una libertà appassionata alla vita. A questo reale si obbedisce, in questo reale si sta dentro, in compagnia di qualcuno che già vive con semplicità e coraggio, questo attaccamento del proprio io alla “più romantica delle avventure”: quella del vivere quotidiano.
L’obbedienza è una virtù praticabile se essa incontra una auctoritas certa ed affascinante che le promette di “augere” (favorire) la mirabolante e faticosa impresa del crescere del suo io e dell’affacciarsi al reale come dato, fornendo le conoscenze adeguate perché questo io possa introdursi da protagonista in questa foresta ancora ignota del mondo.
Le caratteristiche della auctoritas dell’adulto sono note :
• essere radicato dentro una tradizione che egli consegna dentro un vissuto presente;
• preoccuparsi d’impegnare la propria umanità con le esigenze costitutive del suo io;
• umilmente allearsi sempre con altri adulti, affinché il giovane obbedisca ad una compagnia che lo introduce sistematicamente al reale più che ad un individuo magari umanamente accogliente, ma che da solo non è certo in grado di mantenere tutta la pienezza di una promessa educativa.
L’auctoritas è riconoscibile e stimola la sequela del figlio o dell’alunno se sta sempre di fronte al reale, s’impegna in prima persona con le circostanze buone o cattive, drammatiche o semplici, noiose o imprevedibili della realtà; ci sta senza scandalizzarsi delle proprie debolezze o presumere eccessivamente dai propri talenti come se essi non fossero un dono; l’auctoritas deve essere in relazione costante con il reale, senza cercare continuamente alibi agli errori propri, ma coraggiosamente accetta la correzione fraterna da altri che vivono l’autorevolezza meglio di quanto riesca a viverla tu; così si diventa autorevoli, perché una posizione umana viene vissuta ed essa desta la curiosità del discepolo e del figlio che, se è ragionevole, si pone la domanda : “Come si fa ad essere così? è possibile vivere così?...”; quindi il giovane si accosta, ascolta, comincia come la volpe nel “Piccolo Principe” a farsi addomesticare e, a poco a poco, guardando e seguendo, diventa grande: cioè fa esperienza.