L'apprendista... insegnante: 3 - La lezione
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Preparare le lezioni
Non si entra mai in classe senza aver preparato la lezione (questo vale anche per chi insegna da trentasei anni come me) per il semplice motivo che non puoi barare né con te stesso né con i ragazzi: non chiedi loro un ascolto, un apprendimento, una fatica che tu non vivi in prima persona. Certo, si può vivere di rendita sugli argomenti già affrontati o sulle nozioni imparate in università, ma che noia avvilente è insegnare così! Si deve spiegare Leopardi o parlare del Medioevo come se fosse sempre la prima volta! E se è la prima volta che lo fai, vai a lezione da chi l'ha già insegnato!! Ovviamente la lezione tiene conto della realtà: fai "saltare" quello che tu hai preparato se accade l'imprevisto di una domanda, di una sollecitazione, di un fatto significativo che obbliga a rimettere in discussione ciò che hai pensato di fare. Attenzione: non sono gli alunni che dettano i contenuti della lezione, perché talvolta ci sono i furbi che fanno continuamente domande per portare il docente altrove rispetto a quello che intende fare: si tratta di essere maestri realisti. Se l'alunno è colpito da un dolore grave, se gli obiettivi educativi che la classe è chiamata a vivere trovano una riottosa e istintiva resistenza, se 400 bambini vengono massacrati in un attentato suicida in una scuola in Russia, o accade una strage nel metro di Londra… insomma se le facce che hai davanti o la realtà intorno a te urgono, pressano con una domanda, tu non puoi far finta di niente e procedere con la tua "bella" lezione, come se niente fosse successo!
Articolare lo svolgimento della lezione
Entri in classe e sai che il livello di tenuta di ascolto di un preadolescente è di 20 minuti, ma devi gestire una o due ore. Che fai? Articoli lo svolgimento della lezione tenendo sempre conto di questo dato che hai di fronte. Come? Non forzi i tempi dell'attenzione quando ti accorgi che non c'è più lo sguardo del ragazzo, anche se stai raccontando la cosa più interessante di questo mondo. D'altra parte non cedi e non ti interrompi solo perché due o tre alunni sono altrove come atteggiamento. Nel tempo che sei chiamato a vivere in classe, usi diversi e molteplici registri linguistici e vari strumenti. Si tratta di parlare, leggere, scrivere, ascoltare, partecipare, mostrare immagini, valorizzare gli interventi dei ragazzi più svegli e curiosi. Proponi agli alunni di lavorare per conto proprio, dopo aver fornito delle indicazioni che permettano un impegno personale e tu ti limiti a vigilare e a sorreggere, girando tra i banchi, ciascuno di questi alunni, non solo i più deboli.
Valutare sistematicamente e valorizzare
Poi interroghi, verifichi, valuti in modo sistematico, regolare, puntuale, così che i ragazzi e i genitori sappiano il livello di apprendimento conseguito. Cerchiamo di non essere approssimativi o trascurati su questo delicato aspetto del nostro lavoro didattico quotidiano, perché talora è in questo particolare che ci perdiamo e poi non abbiamo riscontri ragionevoli per giustificare la valutazione finale. Attenzione: di fronte ad un ragazzo che miete solo insuccessi, è necessario concordare una linea di valutazione comune con i colleghi, in modo che si trovi la strada necessaria per non fargli sperimentare solo esiti negativi. Se costui compie un progresso, valutatelo positivamente, fategli capire bene il vostro apprezzamento, ma non usate giudizi roboanti tipo "ottimo", perché può capitare che lui e i genitori non capiscano che quel giudizio si riferisce ad obiettivi minimi o a prove più semplici: anche in questo caso siate realisti!
L'importanza del lavoro comune
È fondamentale, per chi inizia questo mestiere, il lavoro comune con i colleghi della stessa materia, altrimenti non si sa come calibrare i contenuti del programma da svolgere; quindi sono fondamentali l'incontro e la domanda continua ai colleghi (senza aspettare le riunioni). Occorre mettere in comune la propria esperienza, gli errori, le intuizioni, le scoperte, le scelte, i metodi e le modalità con cui si procede, leggendo la capacità di apprendimento della classe, le potenzialità maggiori o minori che essa possiede. Questa continua ricerca di un aiuto per una professionalità che si affini dentro una compagnia da cui imparare è una delle condizioni decisive per passare da apprendista a maestro.
Inserirsi nella tradizione educativa della scuola
Poi cosa succede? Che l'apprendista insegnante entra a far parte della storia di una scuola nata molti anni or sono, quindi si mette al servizio di una cultura e di una tradizione pedagogica, di un'opera sorta prima che lui nascesse. Quindi, quando entra in classe, questo apprendista deve ricordarsi che quelle aule, quei banchi, quelle cattedre sono già stati frequentati da qualche migliaio di persone che hanno vissuto una grande avventura educativa, fatta di sconfitte e di conquiste, di intuizioni didattiche e di errori di metodo, di rapporti con colleghi e alunni, di straordinarie sorprese circa il "risvegliarsi" della ragione e del cuore dei ragazzi che si sono affidati alla compagnia adulta che voleva introdurli alla totalità del reale. Quindi l'apprendista esegue e impara: che cosa?
Educare insegnando
Per esempio, che non esistono progettualità educative e lavoro didattico slegati dall'esperienza, non ci sono da una parte gli obiettivi educativi che "ispirano" la nostra scuola e dall'altra parte il lavoro scolastico. Esiste solo il richiamo che Giovanni Paolo II ha fatto una volta, cioè: "… una fede che non diventa cultura, non è una fede pienamente accolta, sinceramente pensata, cordialmente vissuta…". Non c'è l'obiettivo dello stupore, dell'amicizia, della scoperta del proprio io e del significato da dare alla propria iniziale giovinezza da una parte, e dall'altra "il lavoro pesante" della didattica. Tale dicotomia favorisce la riduzione delle ipotesi di valore che vogliamo proporre ai ragazzi, ipotesi che divengono così categorie astratte che loro ripeteranno per farti piacere, per timore di deluderti o per un dovere da compiere, oppure divengono sentimenti che non si radicano ragionevolmente nell'io e che non spalancano al reale.
Noi siamo chiamati a formare persone vere e tenaci, ragionevoli e capaci di meraviglia, disposte a impegnare, con "baldanza e coraggio", l'energia della propria giovinezza per vivere ideali che si traducano in esperienza. Lo stupore è radicato dentro la ragionevolezza di un Creatore che ha messo davanti agli occhi dell'alunno la bellezza del creato; l'amicizia è un'apertura del cuore, densa di scopi e di ragioni, non un narcisismo a due o il legame che tiene unito un clan da cui gli altri sono esclusi; il significato, quello di cui scrive E. Lee Masters nella famosa poesia: "George Gray": è "… il tormento e l'inquietudine del desiderio...", quindi qualcosa di cui fare esperienza o qualcuno da incontrare che siano così affascinanti da far esclamare: "Anch'io voglio vivere così! Desidero essere come lui!".
Nella materialità quotidiana
Perciò, quando insegni matematica o spagnolo, scienze o tecnologia, nella lezione fatta di sguardo sulla classe, sul singolo alunno, di libri e di quaderni impiastricciati, nelle spiegazioni di testi, nella formulazione delle regole, nella correzione dei compiti o nelle interrogazioni… in tutta questa materialità quotidiana, di cui è intessuto il nostro lavoro, passano stupore, amicizia e significato. Ciò che conta è il modo con cui li salutiamo, li rimproveriamo o li valorizziamo, il modo con cui li facciamo studiare ed imparare ciò che ci appassiona, il modo con cui siamo pazienti o gridiamo spazientiti verso di loro. Insomma è fondamentale che noi viviamo quotidianamente una passione totale verso la realtà e uno struggimento denso di affezione per la compagnia degli adulti che "inventa" ogni giorno le tappe del viaggio che gli alunni sono chiamati a compiere.
Basta pensare al valore fondamentale che ha assunto il "gesto" dentro la nostra tradizione pedagogica (dal teatro alle uscite, dalla caritativa fino alle vacanze comuni). Basta pensare che abbiamo a che fare con realtà familiari sempre più sofferenti e smarrite, che chiedono un aiuto per sé e non solo per i figli. Basta riflettere sulla solitudine e la fragilità in cui vivono questi nostri ragazzi a cui spesso si chiede non di diventare se stessi, ma di compiere performances più o meno brillanti per placare l'ansia da insuccesso che gli adulti vivono sulla propria pelle.
Concludendo
- "Ogni mattina parto per venire a scuola e ogni volta per strada penso sempre a cosa si farà in classe, ascoltare il professore, oppure se ho dimenticato qualcosa o penso delle mie cose segrete… secondo me, il professore impara delle cose anche da noi ragazzi, anche se non vuole ammetterlo… io credo che tra esseri umani – ragazzi, adulti, bambini – impariamo sempre qualcosa… ci sono delle volte che mi domando: imparare perché o imparare per cosa? Io questo forse lo capirò un giorno, ma per me imparare significa che bisognerebbe apprendere da tutto ciò che la vita ci offre…" (da G. Pittarello, Il tempo segreto, Einaudi).
- "…L'educazione è come il dono della vita: è innanzitutto un'opera d'amore. Proprio come il mettere al mondo un bambino non è un atto riducibile alla sola logica della ragione, così non si educa assumendo innanzitutto la logica dei principi e dei programmi. L'atto educativo non è possibile se non è permeato da quella fiducia che supera sempre le sue stesse premesse per avventurarsi nell'ignoto, rischiare nel presente, investire nell'avvenire: si comunica solo ciò che si ama e non attraverso strategie preparate a tavolino… L'atto dell'educare non è solo un compito specialistico che compete a ruoli o istituzioni… L'atto dell'educare compete anche e soprattutto alla logica dell'amore… (M. Lena, Lo spirito dell'educazione, Ed. La Scuola).