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"Dolce Amor, Cristo bello!" Clemente Rebora e l'incontro con Cristo 3 - L'"imbestiamento" della Prima guerra mondiale

Autore:
Rossi, Valerio
Fonte:
CulturaCattolica.it

Ma ci sono momenti in cui la realtà appare in tutta la sua tragicità. Siamo al secondo momento del percorso reboriano: l’esperienza vissuta durante il primo conflitto mondiale. Inizialmente la guerra viene salutata positivamente con una timida posizione interventista di chi vede in essa la possibilità di una “purificazione”, di una “catastrofe” che possa rinnovare l’umanità, riportandola a un punto di partenza che tolga la spessa incrostazione borghese che l’ha ricoperta. La tragicità della realtà sperimentata nell’esperienza di trincea riporta però l’attenzione di Rebora sul male del mondo e sul male dell’uomo, facendo nascere in lui una domanda ancora più profonda.

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sóffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai
.

Dal verso 4 è la «vedetta morta» a parlare e a esprimere il suo disinganno per un mondo che si è rivelato nella sua intima falsità: la salvezza, il rinnovamento non può venire da mano d’uomo. L’utopia di un cambiamento che passi attraverso la lotta non è realizzabile.
Anzi, il conflitto ha portato l’accrescersi di una disumanità che non può essere redenta da «nulla del mondo»: la salvezza non è immanente al reale, ma va ricercata in un “oltre” («Sóffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui»). Per il momento Rebora approda però a una soluzione parziale, quella del rifugio nel rapporto amoroso con una donna, che diventa segno di una promessa, seppur debole e incerta, per il futuro (biograficamente è databile a questi anni l’intenso rapporto con Lydia Natus, che di lì a poco cesserà).
Siamo nel massimo della tragedia, in una situazione che il poeta descriverà a tinte forti in diverse lettere:

Mamma mia, sono nella guerra ove è più torva: fango, mari di fango e bora freddissima, e putrefazione fra incessanti cinici rombi violentissimi. E Checche fatto aguzzino, carnefice ecc. Martirio inimaginabile". Qui, in luoghi che “sono il Calvario d’Italia”, dalla trincea, il poeta trova anche la forza di scrivere alla madre: “Dì’ a Piera che la ringrazio, che la bacio con il suo Ugo, e Maria coi bambini […], cari piccolini – ai quali narrerò ciò che al mondo avevo intuito e ora pagato sulla croce: quanta letizia vorrò dare ai giovani! Grazie, grazie. A tutti”.
Qui, nel massimo dello sgomento, nella lettera in cui descrive, fra l’altro, “l’imbestiamento e lo sforzo di tener su queste larve d’uomini”, Rebora appare teso alle soglie di un segreto, già “intuito” e “ora pagato”; un segreto che non può essere vano, come la “routine macabra” (sono sue parole) che sta vivendo, e che porta con sé una parola strana nel momento della tragedia: “letizia”, una letizia che può essere comunicata alle nuove generazioni.
In questi mesi della guerra e, soprattutto, dell’immediato dopoguerra (per lui il '16-17, quando viene mandato a casa dal fronte per uno choc subito in seguito all’esplosione di un obice – diagnosi: “mania dell’eterno”) l’atteggiamento del poeta vive un’ambivalenza: da una parte è caratterizzato da un’impossibilità di dire quanto vissuto per un cuore che è divenuto impassibile, pietrificato di fronte alla tragedia; dall’altra parte una volontà di vicinanza all’uomo che vive nella trincea il suo “imbestiamento”, che diventa ansia di salvezza, di redenzione e che troverà il suo simbolo nella figura di Lazzaro, colui che è richiamato alla vita.

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