Anche in Italia una nuova ondata di illuminismo e laicismo
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«L’Italia di oggi si presenta a noi come un terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per una testimonianza. Profondamente bisognoso, perché partecipa di quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenire superfluo ed estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità di ogni uomo e della sua libertà. Nella medesima linea, l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso. Non è difficile vedere come questo tipo di cultura rappresenti un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità: non sia quindi in grado di instaurare un vero dialogo con le altre culture, nelle quali la dimensione religiosa è fortemente presente, oltre a non poter rispondere alle domande fondamentali sul senso e sulla direzione della nostra vita. Perciò questa cultura è contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza.
L’Italia, come accennavo, costituisce al tempo stesso un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana…E’ sentita con crescente chiarezza l’insufficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’etica troppo individualista: in concreto, si avverte la gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà» [Benedetto XVI, IV Convegno Ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006].
Non è certo la vigna del Signore, la Chiesa cattolica che è debole, poiché non verrà mai meno per chi crede nella presenza in lei di Gesù Cristo risorto, ma è debole la fede di molti cattolici italiani, fede che pienamente accolta, vissuta e pensata ha creato le radici cristiane anche dell’Italia e può creare continuamente cultura cioè cristianesimo ed invece sta venendo meno per la drammatica frattura tra Vangelo e cultura. Sta divenendo sempre più forte attraverso una sopravalutazione emozionale, giuridica, politica e mediatica una franca “vis” anticattolica, che non perde occasione per manifestarsi. Aver ottenuto la morte di Eluana Englaro, fatto vincere al padre Giuseppe la sua tenace e dirompente battaglia di 17 anni, sembra oggi a questi uomini e donne suoi consiglieri una vittoria nei fatti, davvero “in corpore vili” (che senso ha il corpo di Eluana per questa cultura anticattolica, che ha ripugnanza per il corpo malato, per la vita di chi è debole e in tutto e per tutto dipendente dagli altri, squalificando anche la libertà di chi gratuitamente vuol amarlo per la sua indistruttibile dignità), sulla Chiesa e sulla concezione europea e cristiana dell’uomo, plaudendo apertamente alla fine dell’equivoco cristiano di fede e ippocratico di ragione di ogni vita da accogliere perché è bella, è un dono unico e irripetibile del Donatore divino e va vissuta con gratitudine anche quando è debole e in tutto e per tutto dipendente dagli altri ed avvolta nel mistero della sofferenza, va protetta e restaurata finché è possibile. Come è morta Eluana, ha questo effetto di liberazione della sacralità di ogni vita per lei - e si fa di tutto perché lo diventi per tutti, cioè cultura di morte. All’annuncio della morte di Eluana c’è stato chi ha battuto le mani. Niente scandalo: “la vecchia morale non serve più”, come per l’edizione italiana sottolineava nel 1996 un’opera (“ripensare la vita e la morte”) del filosofo, animalista e bioeticista australiano, Peter Singer. Singer vi argomentava “a favore del nostro diritto di valutare la qualità non solo della propria vita, ma anche degli altri, quando si tratti di nascituri o anche di nati o di malati non più in grado di decidere”: uccidere è lecito! Anche la vita, come la verità, diventa solo una ridda di interpretazioni, un materiale inerte per la ricerca scientifica e il progresso. E’ un colpo micidiale a duemila anni di civiltà costruita proprio sulla consapevolezza dell’origine e della destinazione divina di ogni io umano come “dono sempre buono in sé” alla luce di chi si è lasciato uccidere in Croce per risorgere assumendo le sofferenze fisiche e morali degli uomini di tutti i tempi, affinché nell’amore possano trovare il senso salvifico del loro dolore e risposte valide a tutti i loro interrogativi. Per questo la vita di ogni uomo non è un bene disponibile, ma un prezioso scrigno da custodire e da curare con ogni attenzione possibile, dal momento del suo inizio fino al suo naturale compimento. Certo la vita è un mistero che di per se stesso chiede responsabilità, amore, pazienza, carità, da parte di tutti e di ciascuno. Ancor più è necessario circondare di cure e rispetto chi è ammalato e sofferente. Questo non è sempre facile ma alla “scuola” del Cristo eucaristico, soprattutto i giovani, imparano ad amare la vita sempre ed accettare l’apparente impotenza davanti alla malattia e alla morte.
Pur consapevoli della relatività di tutti i sondaggi e dell’attuale emergenza educativa è devastante il dato di questi giorni che i giovani dai 18 ai 25 anni siano in grande maggioranza favorevoli alla richiesta della famiglia Englaro di “giusta morte” dentro l’idea, consci o inconsci, di una malattia come prigione, di una disabilità cognitiva e percettiva, come carcere infernale dal quale liberarsi in nome dell’autodeterminazione, del diritto di morire. Circola, infatti, e si mescola nella ridda delle sensibilità, e delle opinioni umanitarie a favore della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione: se io mi trovassi nelle condizioni di Eluana non vorrei che questo mi accadesse. Enunciato che si vuole complementare, anzi rafforzativo dell’altro, portato avanti dal padre: se Eluana avesse previsto di trovarsi nelle condizioni in cui poi si è trovata non avrebbe voluto vivere (e qualcosa del genere sembra che lo abbia detto). Conclusione: la condizione fino a qualche giorno fa di Eluana doveva avere fine. L’errore consiste nel giocare l’argomentazione su due tavoli. Io sento e ragiono come il soggetto sano che rifiuta per sé il possibile degrado corporeo e psichico della malattia, e contemporaneamente sento e ragiono come il malato che soffre rifiuta la propria condizione. Il sano decide, allora, in quanto malato, per il malato fuori di sé, per l’altra persona che egli non è, come se decidesse per sé. Decide la morte di altri come decidesse la propria. Ma restando vivo e “libero”, mentre l’altro muore.
L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalla varie agenzie giudiziarie di coloro che sono al potere fino ad arrivare al primo caso in Italia della morte per sentenza di Eluana innocente
Sarebbe stato lungimirante, da parte della massima carica dello stato, non favorire, anche solo di fatto e involontariamente, gli obiettivi di una parte della nostra attuale cultura e dell’establishment, appropriatisi del caso Eluana dal 2007 (dalla sentenza della Cassazione dell’ottobre) come strumento per forzare, qualcuno arriva a dire scardinare, leggi dello stato e morale pubblica. Quando si è richiamato autorevolmente, da parte ecclesiastica, che nella vicenda in corso stanno prevalendo i “formalismi giuridici”, questo si è inteso dire: non certo che il diritto sia in sé formalismo, ma che la macchina giurisdizionale procede formalisticamente, come nel caso Englaro, produce in sequenza progressiva quelle brecce necessarie e sufficienti a rendere possibile una pronuncia, un “giudicato” correttamente prodotto, legale, ma sostanzialmente contro la giustizia del valore unico e irripetibile di ogni persona dal concepimento alla morte naturale. Quando si procede semplicemente in termini di legalità è minacciato l’articolo due della Costituzione italiana sul valore assoluto di ogni persona e i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo.
Scriveva Ferrando Mantovani su Avvenire (e con lui il formidabile “manifesto” dei penalisti Ardizzone, Caraccioli, Eusebi, Gallo, Ronco del 24 luglio 2008) che “due vizi di fondo” segnavano le pronunce giudiziarie alla base del precipitare della vicenda Englaro. Le pronunce costituivano in effetti non atti di giurisdizione ma di “sovranità”.
“Troppi elementi dell’impalcatura argomentativa – riflessioni di Pietro De Marco in blog di Sandro Magister, 10 febbraio 2008 – adottata dalla Corte di Cassazione e poi dalla Corte d’appello di Milano non tanto opinabili (questo avverrà sempre per ogni giudizio) quanto arbitrariamente posti come certi, dalle questioni medico scientifiche ancora aperte, al criterio improvvisato adottato nel postulare, anzitutto, e poi “ricostruire” una personalità, uno stile di vita, le convinzioni di Eluana, obbliganti per i giudici. Non si dica, aggiungo, della banalità (su terreni di estrema complessità, quali quelli della caratterologia) delle risultanze di quella indagine.
Della esemplare, direi perfetta, sintesi che l’articolo di Mantovani proponeva della vicenda giudiziaria Englaro nella sua portata etico – giuridica – politica profonda, va sottolineato con forza il profilo più grave, quello che l’interruzione di alimentazione in atto costituisca omicidio doloso.
Nella segnalazione di questo esito, materiale e giuridico (oltre il caso particolare e la singola vita), convergono necessariamente i saperi, e le conseguenti capacità di lettura dei fatti, sia del giurista che rifiuti di farsi (lui!) strumento neogiacobino di eversione di leggi, ma specialmente di norme fondamentali antropologicamente costituite (o quella “Our Traditional Ethics” alla cui distruzione mira il naturalismo materialistico dei Peter Singer), sia l’antropologia cristiana senza sosta esplicitata e verificata nell’azione magisteriale della Chiesa cattolica e nella pubblica chiarificazione dei veri diritti di Eluana condotta da anni da una parte dell’intelligenza cattolica, che si trovi nella gerarchia o tra i fedeli. Ruini, certamente – conclude Pietro De Marco –, non Mancuso e Reale. La due culture – la giuridica e la filosofica cristiana – sono d’altronde sinergiche da oltre un millennio; e sono in virtù di questa sinergia le strutture portanti della civiltà umana. Ogni indirizzo etico e giuridico (infine politico) dei moderni – contemporanei, gravemente deviante da questo ordine è, verificabilmente, omicidiario. Alla domanda che accompagnava su “Avvenire” l’intervento di Mantovani (“perché, allora, non è stato fatto scattare il principio di precauzione, secondo il quale ‘in dubio pro vita’?”) vi è una risposta: perché i numerosi apologeti del dubbio, che ci perseguitano in questi giorni con le loro omelie laiche, sono antropologicamente ciechi. Non solo, dunque, essi affermano un “in dubio pro libertate” ma anche “in dubio pro impotentia”, nella piena gamma semantica di “impotentia”, che accomuna la debolezza degli uni alla sfrenatezza degli altri”.
Fa male sentire il padre di Eluana ripetere, senza sosta, che negli anni coloro che hanno permesso l’esistenza della figlia l’avrebbero invasa e violentata: ignora l’umanità costitutiva della figlia e misconosce sia la coscienza dei medici e la retta opera delle suore che l’hanno assistita e dicevano che erano disposte a continuare ad assisterla fino al termine naturale. L’atteggiamento di papà Englaro, consapevolmente o meno, ha negato la vita della figlia e la carità di chi l’assisteva. “Ma negare la carità – Giancarlo Cesana – è negare la libertà di amare… Che uno neghi il bene che un altro può fare mi sembra proprio disumano…I sostenitori dell’eutanasia sono generalmente anche i sostenitori del dubbio, i cosiddetti “laici”, mentre noi cattolici, sempre secondo questa versione di laicità, saremmo quelli che vorrebbero imporre la loro fede e le loro certezze agli altri. Questa vicenda rivela esattamente il contrario. Di fatto, da una parte viene negata ogni possibilità di dubitare e si afferma la fede certa di che cosa fosse il bene per Eluana. Dall’altra il dubbio e quindi il senso del limite davanti al mistero. Di fatto i sostenitori dell’eutanasia negano ogni possibilità di dubitare su quello che questa donna comprendeva, sentiva, soffriva. E che avrebbe potuto comprendere, sentire e soffrire mentre la uccidevano staccandole il sondino dell’acqua e delle altre sostanze nutritive. Insomma si sa così poco che per ucciderla hanno dovuto sedarla. Un trattamento che evidentemente dice che i dubbi c’erano. E invece sono andati avanti. Questo atteggiamento mi ricorda la lettera che una signora scrisse al Corriere della Sera per contestare la posizione del professor Giorgio Pardi, medico abortista che poi ho saputo cambiò opinione pochi mesi prima della sua morte. Pardi sosteneva di non sapere se l’embrione avesse o no dignità umana (fosse persona). Ma questa, gli replicò la donna, è la stessa posizione del cacciatore che sente qualcosa che si muove in un cespuglio e, pur non sapendo se si tratti di una lepre o di un bambino, spara lo stesso”.
Cresce in Italia anche la consapevolezza della gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà
Questa sensazione sta emergendo nel popolo italiano e viene formulata espressamente e con forza anche da parte di molti politici e importanti uomini di cultura, anche tra coloro che non condividono o almeno non praticano la nostra fede.
“Quel che è accaduto – Ferrara su Il Foglio di mercoledì 11 febbraio 2009 – è semplicemente tragico ed è tragico che sia potuto accadere senza vere conseguenze, senza una testimonianza che non fosse il povero rosario recitato da piccoli gruppi pro life di acuta sensibilità e scarso carisma nella chiesa e nel mondo cattolico: una povera cristiana è stata strappata a furia di sentenze dalle mani caritatevoli delle suore Misericordine di Lecco, e trasferita da un ambiente di amore manzoniano a una clinica dove un repartino di morte è stato attrezzato e governato da una setta di volontari che hanno rovesciato il significato della carità, e questo con tutte le migliori intenzioni, mostrando l’atroce volto dell’antipersonalismo ateo, e il disprezzo pubblico e pedagogico e piagnone verso una vita indegna di essere vissuta.
Se ci si può permettere tutto questo nel cuore di una grande nazione di radici cristiane come l’Italia sono guai. Se non si avverte una cocciuta e divampante resistenza come parte della tragedia, se i cristiani sono costretti alla parte dello spettatore o consegnati a un florilegio di retoriche o una presenza orante ma non potente, sono guai”.
Comunque è importante questo grido di aiuto anche da parte di chi non condivide o almeno non pratica la nostra fede. Com’è sempre nel progetto di Dio tocca ai pochi che vivono una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo, con la forza che viene dallo Spirito del risorto e pur con povere risorse, fare un sevizio ai molti in Italia, in Europa e nel mondo.