Sparta o Betlemme?

(Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore)
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E’ nato un bambino, due giorni fa alla clinica Nuova Città di Roma. Peso: 3 kg, altezza 49 centimetri. E’ nato alla trentaduesima settimana, da un taglio cesareo pianificato quando i genitori, dopo un esame effettuato sei settimane fa, hanno saputo che il figlio sarebbe stato disabile. Affetto da una malformazione scheletrica, l’acondroplasia: una forma di nanismo, la mamma non l’ha riconosciuto e l’ha lasciato alle cure dell’ospedale. Ora il bimbo, a cui, dopo la nascita, sono subentrate complicanze polmonari, si trova in terapia intensiva presso l’ospedale Villa San Pietro.
Questa la notizia.
Secondo la normativa in vigore in Italia, la madre che non riconosce il figlio alla nascita ha dieci giorni di tempo per ripensarci ed eventualmente riottenerne l’affidamento, altrimenti il tribunale sarà chiamato a decidere se il piccolo sarà ospitato presso una casa famiglia sotto tutela del sindaco, o se darlo in affidamento temporaneo.
Le statistiche raccontano di un 20% in più di nati, quest’anno, in Italia, e non riconosciuti. Spesso i motivi addotti dalle madri che prendono questa decisione sono legati a situazioni di indigenza – e allora bisognerebbe interrogarsi seriamente su come le donne, le famiglie vengono informate, consigliate, aiutate, nel caso in cui si trovino in ristrettezze economiche! (E che bella la storia raccontata sul nostro sito da Nerella Buggio nell’articolo “La parrocchia adotta un bambino”!)
In questo caso no: il bambino non è stato riconosciuto non perché la famiglia non fosse in grado di mantenerlo, ma perché non era un bimbo “normale”.
Oggi, solo nelle case-famiglia di Roma, sono ospitati una decina di bambini con malformazioni, abbandonati alla nascita, che non sono stati reclamati dai genitori naturali e sono in attesa di essere adottati. E’ di queste case famiglia; è di tutte le persone che si prendono cura dei “non voluti” che desidero parlare, mentre spero (e, da cristiana, prego!) che questa mamma romana ci ripensi; che qualcuno la sostenga nella decisione di prendersi cura di suo figlio che ha bisogno di lei che – ne sono certa – potrà amarlo ed accudirlo meglio di ogni altra donna al mondo, perché a lei è stato affidato…
Ma intanto è di chi ogni giorno sta accanto a questi bimbi che scriverò, dando volutamente la parola, anzi la penna, ad Italo Calvino, non credente, che nella presentazione al racconto La giornata di uno scrutatore, in cui Amerigo, comunista, durante le elezioni del 1953 ha il compito di fare lo scrutatore in una sezione elettorale all’interno del ‘Cottolengo’ di Torino, così scrive: “I temi che tocco (…) non avevo mai osato sfiorarli prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose. (…) Dirò soltanto che lo scrutatore arriva alla fine della sua giornata in qualche modo diverso da com’era al mattino; e anch’io, per riuscire a scrivere questo racconto, ho dovuto in qualche modo cambiare”.
In effetti cambia, Amerigo, il protagonista, e con lui, prima di lui, cambia l’autore. Cambiano perché guardano la realtà con onestà e dalla realtà si lasciano interrogare.
“Già il confine tra gli uomini del ‘Cottolengo’ e i sani era incerto”, riflette lo scrutatore ad un certo punto del racconto. “Cos’abbiamo noi più di loro? Arti un po’ meglio finiti, un po’ più di proporzione nell’aspetto, capacità di coordinare un po’ meglio le sensazioni in pensieri… poca cosa, rispetto al molto che né noi né loro si riesce a fare e a sapere… poca cosa per la presunzione di costruire noi la nostra storia”. E così, pagina dopo pagina, ora dopo ora, “nel mondo-Cottolengo (nel nostro mondo che potrebbe diventare, o già essere, ‘Cottolengo’) Amerigo non riusciva già più a seguire la linea delle sue scelte morali (…) o estetiche”.
Cambia, Amerigo, durante la giornata trascorsa nell’Istituto torinese. Ed è soprattutto una scena a colpirlo. “Il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio. Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto i cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.
“Amerigo, velocemente, pensò al Discorso della Montagna, alle varie interpretazioni dell’espressione ‘poveri di spirito’, a Sparta, a Hitler che sopprimeva gli idioti e i deformi; pensò al concetto d’eguaglianza, secondo la tradizione cristiana e secondo i principi dell’ ’89 (…) La Chiesa (…) aveva preso in parola l’eguaglianza dei diritti civili di tutti gli uomini, ma al concetto di uomo come protagonista della Storia aveva sostituito quello di carne d’Adamo misera e infetta che pur sempre Dio può salvare con la Grazia. L’idiota e il ‘cittadino cosciente’ erano uguali in faccia all’onniscienza e all’eterno, la Storia era restituita nelle mani di Dio, il sogno illuminista messo in scacco quando pareva che vincesse”.
Cambia, lo scrutatore comunista Amerigo, di fronte a quell’ “Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade e che pretende e che produce e che consuma”. Cambia, e comprende una verità che accomuna credenti e non credenti, perché è radicata nel cuore dell’uomo.
E’ un intellettuale onesto, Calvino, e lui che nel 1961 si era davvero fatto nominare scrutatore al Cottolengo e lì aveva trascorso quasi due giorni, condensa, in meno di due righe, ciò che la sua ragione e il suo cuore hanno compreso: quello che Manzoni chiamerebbe il sugo della storia. “La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile”.
E’ nato un bambino, due giorni fa a Roma. Non so chi se ne prenderà cura, ma so che, potesse parlare, quel bambino, direbbe che la sua esistenza, la sua carne è una sfida e una provocazione; e rammenta, a noi che ci definiamo normali, il segreto della vita, la consapevolezza che, unica, rende umano l’uomo. “La vanità del tutto e l’importanza d’ogni cosa fatta da ognuno”.