Associazione Cultura Cattolica

Dante e Petrarca

Autore:
Roda, Anna
Fonte:
CulturaCattolica.it ©

Denso ed interessante il libro Da Petrarca a Dante. Un viaggio nella cultura moderna alla ricerca delle fonti, pubblicato da Giovanni Casoli, per i tipi di Città Nuova, ormai più di dieci anni fa; una lettura che oggi per noi, alla luce degli ultimi interventi di don Giussani, risulta attualissima, ricca anche di altri spunti ed approfondimenti.
L’analisi puntuale di Casoli non è innanzitutto e solamente una disamina storico-letteraria, ma è soprattutto un corpo a corpo con Dante e Petrarca, un serrato confronto tra loro e con noi, uomini del Duemila, che in modo evidente o sotterraneo dipendiamo da quelle due concezioni umane e culturali.
“…Al centro della grande crisi in cui il Medioevo tramonta […] si apre la divaricazione delle due vie, quella di Dante e quella di Petrarca. Vie non solo letterarie ma filosofiche, religiose, umanistiche, umane. La cultura, non solo la letteratura, moderna, segue prevalentemente e in imo corde la via di Petrarca, non la via di Dante, attraverso la declinazione laica dell’umanesimo, «la sufficienza» illuministica, l’eccesso romantico, l’orgoglio positivistico, l’ebbrezza tecnologica (non stranamente connessa a quella decadente). È la via, nonostante apparenze contrarie, del soggettivismo sempre più acuminato e lacerante, che finisce nella colonia penale di Kafka…
L’altra via, quella di Dante, drammatica e magnifica anche se piena di accidenti d’errore
[…] è tracciata su un percorso più lungo di quello che conduce alla nostra epoca, va più lontano, perché è la via del realismo, dell’oggettività mai abbandonata, sempre perseguita. […] Per essa il mondo davvero esiste e deve essere interamente attraversato. Nel percorso della cultura moderna il tracciato di questa via non è assente né invisibile, solo meno vistoso e vincente, fino ad oggi, ma oggi sta risalendo all’evidenza. Occorre, a me almeno, ripercorrerlo…”.


La vita: camminare o vagare?
Per brevi ma concentrati capitoletti, Casoli segue e confronta esistenze e concezioni di vita, gettando luce su implicazioni ed esiti esistenziali. Nella ricca messe di osservazioni individuiamo una traccia, un ideale percorso, senza la pretesa di esaurire tutto ciò che lo studioso propone.
Cos’è la vita? Un vagare per Petrarca, un cammino per Dante.
A tutti è noto l’inizio della Commedia dantesca (“Nel mezzo del cammin di nostra vita…”), inizio nel quale l’allegoria fa eco alla reale esperienza dell’Alighieri. In Dante nulla è astratto: l’anima umana si incarna e prende forma nel suo corpo, entrambi saldati insieme da Dio, tanto che lo spirito non può fare un passo senza la materia, né questa si illude di compiersi senza lo spirito. In Dante è evidente che la vita è cammino, tanto che ognuno di noi vi si può riconoscere. Qualunque sia la scelta che ci intriga, che si tratti della Firenze delle Arti maggiori o della New York della Fifth Avenue, o che la donna amata sia l’angelica Beatrice o una nostra coetanea dal nome meno altisonante, siamo – noi e Dante – peccatori in cerca di redenzione. Nella difficoltà di discernere, la nostra salvezza è sapere che siamo in cammino nella vita, e lungo la strada brilla la certezza del compimento, non offuscata dal guazzabuglio del nostro cuore.
Petrarca vaga e divaga, come lui stesso racconta nella lettera a padre Dionigi da Borgo San Sepolcro, a proposito della salita sul monte Ventoso fatta con il fratello Gherardo.
Anche in questo caso l’autore usa un’allegoria per manifestare una sua posizione esistenziale, ma il tutto è così insistente da risultare pretestuoso: realtà e significato sono separati e tenuti insieme a viva forza; l’unione di essi non è altro che un sottile gioco letterario, tutto alla fine è letteratura. La poesia sostituisce la vita, e l’uomo è sempre fuori tempo, in qualsiasi situazione si imbatta. Un breve passo separa Petrarca dallo straniero di Camus o dall’esistenzialismo decadente di Sartre.


Di un uomo decidono le scelte
“È la formazione di un uomo che decide della sua vita, sono le scelte a tempo fatte, e quelle a tempo non fatte, le giuste consapevolezze e i giusti pentimenti, o gli ingiusti, a scolpire nel tempo, irreversibilmente, la figura compiuta poi nella morte.”
Petrarca ha sempre amato i riconoscimenti pubblici per la sua vita completamente dedicata alla letteratura: sollecitò la corona d’alloro come poeta, successivamente si vergognò di tanto ardire, pur non rinnegando ciò che aveva fatto ed ottenuto.
Dante ha dovuto rinunciare a tutto: la città (e per un uomo di quel tempo era tutto il mondo, l’identità profonda, la libertà personale, l’origine di sé ed il proprio futuro), la famiglia, l’onore, gli agi e le sicurezze economiche. Ma da tale privazione, prima subita con sdegno e poi accettata come compito e condizione, Dante matura una visione abissale dell’intera realtà, libera da impacci e limiti, incardinata nel presente e proiettata sui futuri destini dell’uomo e dell’umanità. Quella per cui venne condotto fu “la via del non impadronirsi del mondo, dell’amore, della fama per dilatare invece la coscienza e la parola, fino ai suoi inevitabili silenzi, sulla misura del mondo, della storia e del suo mistero, incessantemente rivolti alla luce creatrice di Dio, che lo conserva nell’essere, lo attrae al bene folgorandolo di bellezza, lo chiama alla verità e al giudizio con un decreto eterno di giustizia che non impedisce la misericordia e di misericordia che non offusca la giustizia.”
Petrarca nasce in una società nervosa, brillante, mondana, quella della corte pontificia avignonese. Egli accede agli ordini minori per sicurezza economica, diventa segretario dei Colonna, accettando quella dorata subordinazione e quei morbidi limiti nei quali coltiva il suo giardino letterario. La sua non è che una fede ultimamente emotiva, che considera astratte le speculazioni filosofiche e teologiche di un Tommaso, e guarda con più interesse ad Agostino, cogliendone solo in parte la complessità teologica, così come avviene per i filosofi Cicerone, Virgilio, Seneca, che ai suoi occhi sono naturaliter cristiani.
Le non vastissime ma profonde conoscenze letterarie, equilibrate da solide letture filosofiche, teologiche e scientifiche conferiscono a Dante una capacità trans-culturale in direzione spirituale, ascetica e mistica, aprendogli orizzonti impensabili per un uomo del suo tempo.
Se il rapporto di Petrarca con il passato è di incondizionata e narcisistica devozione, tanto da infarcire con continue citazioni i suoi scritti, quello di Dante con l’antichità è un rapporto che vede quel tempo come provvidenziale nella crescita umana e che, alla sua maturità, approda alla pienezza di Cristo. Non un rapporto di sudditanza, quindi, ma di dialogo secondo la statura dell’uomo. Dell’uomo in cammino, come bene esprime il cammino di Dante con Virgilio nella Commedia.


Società e politica
L’idea filosofica e religiosa del mondo diventa inevitabilmente idea sociale e politica.
Petrarca desidera la pace, sogna una Chiesa evangelica, esorta i papi a ritornare a Roma; si infiamma per l’impresa di Cola di Rienzo e per la Roma repubblicana, ma a differenza di Dante non si impegna in prima persona con una scelta politica; rifiuta la proposta di Boccaccio di ritornare a Firenze, accettando di contro l’invito della Milano viscontea. I suoi appelli alla pace e all’unità sono letterari, o al più generiche esortazioni morali.
Dante invece matura la sua riflessione politica proprio a partire da un diretto coinvolgimento, proponendo soluzioni di sorprendente modernità: “Dante concepisce l’imperatore come ministro supremo, cioè servitore universale, dell’uomo, e l’uomo come il fine del supremo potere politico imperiale, che è garante della sua libertà; di una libertà non astratta, perché considerata sì nella sua dimensione assoluta, ma sempre anche nella sua fruibilità storica, situata socialmente, localmente, nella interrelazione delle libertà.”



Al fondo della questione
Il clou della presentazione di Casoli è, a nostro avviso, il tema dell’amore e del desiderio, visti nella loro necessità ed assoluta verticalità: “…Nella vita decidono gli amori,… gli amori veri…”.
Petrarca amò prima e sopra tutto la parola, anche la parola amore, che si esprime nella poesia, nello sguardo ad una donna e nell’ottenere gloria.
Dante capì, con un’intuizione particolare, come ferita che segna la vita di un uomo per sempre, di essere servo di Amore “…e gli ci sarebbe voluta tutta la vita, il sonno, il sogno, la letizia, il pianto… a scoprirne il mistero, a percorrerlo…”. Se la giovinezza dell’Alighieri è tutta permeata da ideali stilnovistici, condensati nella presenza di Beatrice, e se già egli distingue l’amore che nasce “per sensibile dilettazione” da quello che nasce “di veritade e di virtude”, ancora però non trova la via per conciliare la vocazione assoluta con l’esperienza incarnata; in lui l’elevazione dalla passione terrena è lenta, oscillante, ma umana e percorribile da tutti. Acme della sua parabola umana ed artistica è - paradossalmente - la morte della donna amata, Beatrice. Dante si propone di cantarne in eterno le lodi, ma gli ci vorrà tutto il travaglio della Commedia per capire quale mistero di verità fosse custodito in quella donna.
L’amore dunque non è un assoluto terreno e per compiersi non può che inoltrarsi nella vita eterna: le lodi cantate nella Vita Nova non sono quindi atto conclusivo, ma preludono al Paradiso della Commedia, nel quale la bellezza è svelamento e sorriso della verità. L’amore diventa spinta inarrestabile e necessaria per la propria salvezza umana e oltre-umana.
Tutta una trepida e dolce femminilità percorre l’opera dantesca, e la Commedia in particolare: per l’uomo il Vero ha una connotazione di femminilità in virtù della forte attrazione che ne promana e che lo conduce. Non solo l’amore è attrazione e tramite, ma diventa metodo di conoscenza: “…Amore, Conoscenza, Fede; il bello, il vero, il buono ruotano in una indissociabile costellazione, ma tutto ciò dalla parte dell’uomo, non elude mai la sua carne, la sua realtà psico-fisica. La vita, anche quella intellettuale e spirituale, nasce da un grembo umano, la verità da una donna (Verbum caro), quindi Beatrice è necessaria a Dante”. Questa necessità intima ed ultima rende Beatrice domina e magistra, sancta e soror. L’esperienza di Dante fa eco alle Sacre Scritture, che trovano in Adamo ed Eva e nel Cantico dei Cantici la loro espressione ontologica e poetica più sublime. Ed al centro del mistero cristiano si trova la figura femminile di Maria, la cui trepida dolcezza è la culla ove riposa e cresce il Mistero fatto uomo.
Petrarca racchiude in Laura ogni amore e bellezza, eppure tutto gli sfugge, poiché non sa conciliare l’umano con il divino. Il poeta vede solo nutrimenti terrestri, per cui l’eterno non è per lui in un legame organico con il temporale: l’io campeggia da solo nelle sue fluttuazioni emotive e tutto in esso si specchia, dividendosi in molteplici frammenti.
Il processo di dispersione centrifuga della cultura unitaria medioevale trova in Petrarca una esemplare debolezza esistenziale, filosofica e scientifica. Per trovare consistenza, egli si arrocca nella letteratura, concepita come impegno assoluto e territorio riservato a pochi. Così l’io poetico tenderà a disporsi come un ragno al centro della sua tela di sogni e se ne dispera, le mura dell’io sono luogo di esultanza e terribile scoramento insieme.
Di contro la Commedia, e l’esperienza letteraria e umana dantesca, sono memoria culturale, viaggio nello spazio e nel tempo, atto di fede, immersione nel paesaggio, estensione della speranza. Dante propone e ripropone in continuazione un itinerarium: è l’itinerarium per visibilia ad invisibilia.
“Oggi la crisi delle ideologie, delle passioni politiche, delle prospettive culturali, del rapporto stesso fondamentale con il mondo fa vedere meglio, e a nudo, l’individuo serrato nella morsa tecnologica della dura ragione economica. Come in un inferno, o in un durissimo purgatorio, chiuso finché non si apra esso stesso alla grazia che rende possibile essa sola, cioè realizzabile, l’itinerarium. Il futuro è, credo, percorribile sulla via di Dante.”



Giovanni Casoli


Nato a Roma nel 1945, Giovanni Casoli è uno scrittore, come prima ancora è stato un insegnante, che ha risposto al richiamo della verità della poesia: lo si vede dal linguaggio e dagli argomenti fatti oggetto, nel tempo, dei suoi studi.
Si potrebbe dire che “lavori su tre tavoli”, se non fosse che il suo cuore di uomo vive interamente in ogni suo saggio, articolo, poesia, prosa: si dedica infatti alla critica letteraria militante dal 1988, con “Dio in Leopardi”, con “Maestri perduti da ritrovare” e col magistrale “Da Petrarca a Dante”, un trattatello con il quale indica la strada possibile per il riscatto della cultura europea.
Ma la sua riflessione estetica poggia su nutriti fondamenti spirituali: da oltre vent’anni cura per Città Nuova gli scritti di sant’Alfonso de Liguori e di santa Chiara d’Assisi. E su una competenza filosofica di prim’ordine: apparsi su “Nuova Umanità”, gli opuscoli di Casoli sull’ateismo e sulla possibile esperienza di Dio nell’epoca contemporanea hanno la profondità pensosa di un Del Noce.
Dopo i lunghi decenni spesi come insegnante, ora è docente di “Cristianesimo e cultura contemporanea” alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Il segno coinvolgente della sua vocazione di guida verso la bellezza e la verità si nota sempre, come nella recente antologia “Novecento letterario italiano ed europeo” (2 voll.), nella quale sono esaltati gli artisti che illuminano la civiltà occidentale dall’interno; e qui Casoli opera scelte coraggiose: per esempio, giudicando Eugenio Corti un romanziere migliore di Elsa Morante.
Casoli, infatti, è innanzitutto poeta, come Hölderlin, come Péguy: si capisce dalla felice povertà delle sue parole; dico questo perché ho la gioia di essergli amico da quasi dieci anni e, malgrado la distanza del tempo e del luogo, è l’amicizia che mi permette di leggere con obiettività le sue opere più intense: gli splendidi versi dei Cinque poemetti (2002) e il recente, imprevedibile, Amore maturo (2004), un romanzo epistolare nel quale è confermata la massima shakespeariana “la maturità è tutto”.


Andrea Sciffo