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Il quattordicesimo canto del Purgatorio

Autore:
Capelli, Valeria
LECTURA DANTIS fatta nella Chiesa di Polenta (presso Forlì)
Non si può non rilevare che lo sdegno e la commozione che Dante esprime attraverso i due gentiluomini, in modo particolare attraverso Guido (e che esprimerà attraverso un uomo di corte, Marco Lombardo, nel celebre canto XVI) hanno anche una radice autobiografica: della corruzione dei Signori l’esule bisognoso, a cui viene fatto pesare il pane che mangia, ha fatto personalmente una bruciante esperienza; così come con immensa gratitudine ha sperimentato l’ospitalità di quei pochi che, legati ancora agli antichi costumi, l’hanno accolto (gli Scaligeri, i Malaspina, i signori di Ravenna). Ma al di là della vicenda personale, sono i suoi convincimenti politici, morali, religiosi che gli dettano questi versi

Occorre fare alcune considerazioni generali come premessa all’interpretazione del canto.
È noto che la più importante acquisizione della critica degli ultimi decenni è che Dante è al tempo stesso “auctor” e “agens”, scrittore e personaggio; che anzi è lui il protagonista assoluto del Poema, tanto che ogni incontro, pur avendo una sua specifica fisionomia, va letto in stretto rapporto con la sua personalità, con le sue vicende esistenziali, con i suoi convincimenti, con le sue esperienze culturali, religiose, politiche e soprattutto col suo viaggio.
Allora si tratta di capire che cosa Dante che scrive ha voluto comunicare di sé in questo canto del Purgatorio dedicato agli invidiosi. E non bisogna dimenticare cosa significa, per Dante pellegrino, il viaggio su per le cornici del Purgatorio guidato da Virgilio-ragione come nell’Inferno.

Se nell’Inferno il Poeta si è staccato dal male radicale, qui non solo continua a giudicare il suo peccato attraverso quello altrui, ma soprattutto è aiutato a ricentrare le sue capacità naturali, a recuperare un atteggiamento umano, razionale di fronte alla vita; in altre parole, è sollecitato a desiderare il bene, a volere quella totalità per cui il cuore e la ragione sono fatti, cioè Dio.

Bisogna ricordare che il Purgatorio è anche la cantica dei tanti incontri con amici e conoscenti, la cantica della sua giovinezza fiorentina, dei toni crepuscolari, delle sottili malinconie; soprattutto è la cantica in cui il Poeta impara che l’uomo ha bisogno di misericordia e che la misericordia, che può essere solo di Dio, sempre vince, qualunque peccato l’uomo abbia commesso, se egli lascia aperto anche un minimo spiraglio per accoglierla. Tutto questo è sotteso al canto in questione e si evidenzia in esso.
Occorre aggiungere una seconda serie di considerazioni. Il viaggio di Dante significa notoriamente una nuova conversione nella vita del Poeta. Ma la conversione è indisgiungibile dalla missione nella mentalità cristiana. L’uomo è persona, non individuo; il che significa che l’io, pur nella sua assoluta individualità, è in relazione ontologica con Dio, con tutti e con tutto. Questa ontologia, rivelata dal Cristianesimo, è esistenzialmente vissuta da Dante, che sente la sua persona in relazione vitale con la realtà in ogni suo aspetto, che sa che ciò che accade nel mondo lo riguarda profondamente, si tratti del disordine che dilaga per la vacanza delle grandi guide preposte da Dio all’umanità o della corruzione degli ordini religiosi o della malvagità dei signori italiani, o anche del bene che pure si afferma nella esistenza di tanti; che riconosce la vita come vocazione e come compito, un compito che sempre comincia dal cambiamento di sé, fondamentale contributo alla renovatio mundi, cioè al cambiamento di tutti. Il sentire fortemente, da parte di Dante, la vita come missione, a cui è legata la forza profetica della Commedia, è il segno della sua autenticità di uomo e di cristiano. Strumento principale per la realizzazione del suo compito è, come è noto, il suo poema stesso, che vuole essere l’annuncio, attraverso il racconto del suo personale cammino di conversione, del giusto ordine del mondo, la dura condanna del peccato, che ha alla radice la lupa ovvero la cupidigia dei beni di questa terra, la proclamazione di quelle virtù cristiane e umane smarrite, sulle quali solo può fondarsi la verità della vita e della convivenza civile.

Occorre affrontare ormai direttamente il canto XIV. È un canto complesso, che nel suo aspetto che più colpisce, il discorso politico-sociale (che è al tempo stesso un discorso etico-religioso), continua una meditazione iniziata da Dante nel canto VI, con la famosa invettiva contro l’Italia dopo il colloquio con Sordello, e portata avanti più in sordina nel canto VIII, nella valletta dei principi negligenti; tale meditazione, passando appunto attraverso questo canto tosco-romagnolo, culminerà in quello celebre di Marco Lombardo.
Dante, che si trova nella cornice degli invidiosi e ha appena terminato il colloquio con Sapia senese, nota due anime addossate alla livida parete, con gli occhi cuciti, che cortesemente parlano fra loro e accennano a lui. Sapremo in seguito che sono due romagnoli: Guido del Duca di Bertinoro (discendente dalla famiglia ravennate degli Onesti) e Rinieri Paulucci di Calboli di Forlì. Essi hanno capito, dal dialogo di Dante con Sapia, che lui è vivo e si chiedono chi mai possa essere. Uno dei due, Guido, si rivolge al Poeta domandandogli da dove viene e chi è, esprimendo tutta la sua meraviglia, come già Sapia, per la grazia da lui ricevuta di poter giungere, ancora col corpo, in Purgatorio . Dante non rivela il suo nome, adducendo il motivo che è ancora poco conosciuto, ma dice di essere nato in una regione attraversata da un fiume che nasce in Falterona: chiaramente allude alla Toscana e all’Arno. Uno dei due, Rinieri, chiede all’altro perché gli abbia taciuto di proposito il nome del fiume come si fa per le cose vergognose; Guido, dopo aver detto che lo ignora, osserva che però è giusto che il nome della valle attraversata dall’Arno sia dimenticato, perché non esiste più la virtù negli uomini che la abitano, trasformati in bestie feroci e sanguinarie. E, seguendo il corso del fiume, chiama gli abitanti del Casentino “brutti porci”, gli aretini “botoli ringhiosi”, i fiorentini “lupi”, i pisani “volpi” piene di astuzia e di malizia. Ma il centro di tanta malvagità è Firenze, dove si distinguerà per ferocia proprio un discendente di Rinieri, Fulcieri che, divenuto podestà della città, venderà la carne delle sue vittime (i guelfi bianchi) ancora vive e poi le ucciderà come animali da macello e lascerà Firenze più che mai devastata, più che mai simile alla trista selva infernale. E veramente toni da Inferno ci sono nelle parole sdegnate, nelle immagini di sangue e di violenza con cui Guido evoca la valle dell’Arno e le azioni delittuose di Fulcieri, toni che rattristano profondamente l’altra anima colpita così duramente nella sua discendenza.

A questo punto Dante chiede i nomi dei due spiriti. E colui che già aveva parlato cortesemente gli risponde, ancora appellandosi alla grazia che Dio gli ha fatto. (“Ma da che Dio in te vuol che traluca / tanto sua grazia, non ti sarò scarso...”). Non è da sottovalutare questa insistenza sulla grazia ricevuta da Dante: essa manifesta un modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, un modo di conoscerla. Queste anime infatti sono piene di gratitudine per la misericordia che Dio ha usato verso di loro e sono tese a riconoscerla umilmente anche nella vita degli altri.
Guido dunque si dichiara e dichiara il suo peccato deprecando la tendenza degli uomini a porre il loro cuore in quei beni che suscitano cupidigia e invidia. Poi presenta Rinieri, uomo di grande prestigio, le cui virtù da nessuno dei suoi eredi sono imitate. Quest’ultima considerazione introduce il discorso sulla decadenza della Romagna. Allo sdegno violento per la degenerazione della Toscana subentra l’amarezza per la situazione presente della Romagna, espressa con immagini di sterilità e di depravazione, e soprattutto l’accorato rimpianto per i costumi cavallereschi del passato. Un tempo i nobili romagnoli, in mezzo a cui avevano trascorso l’esistenza Guido e Rinieri, vivevano con liberalità, guidati da amore e cortesia, godendo degli agi della vita; ora le famiglie nobiliari - prosegue Guido - si sono imbastardite, sono degenerate (famosa è l’esclamazione: “Oh Romagnuoli tornati in bastardi”): e qui egli, commosso, fa l’elenco degli uomini illustri del passato, delle famiglie in cui albergavano quelle virtù civili e cavalleresche che ora sono del tutto scomparse. Augura a Bertinoro di sparire dalla faccia della terra, ora che quei casati nobiliari, che l’avevano resa famosa per la sua cortesia, sono scomparsi come per non cadere nella comune corruzione; e con amara ironia dice che fanno bene i conti di Bagnacavallo, i Pagani di Faenza, Ugolino dei Fantolini signore di castelli nel faentino, a non mettere più al mondo figli maschi; mentre sbagliano i signori di Castrocaro e i signori di Conio (un castello presso Imola) a fare figli che saranno degeneri. A questo punto però il gentiluomo romagnolo si interrompe bruscamente sopraffatto dal pianto a quel ricordo; e prega Dante di andarsene, di lasciarlo solo col suo dolore. Mentre i due pellegrini si allontanano in silenzio, echeggiano improvvisamente nell’aria esempi di invidia punita; poi Virgilio fa un severo richiamo morale e religioso, con cui si chiude il canto.
Perché - potremmo chiederci - Dante ha scelto questi due personaggi per esprimere la sua ammirazione, il suo rimpianto per la cultura cortese-cavalleresca? Inoltre, quale relazione c’è fra questo che è il motivo dominante del canto e il peccato dei due gentiluomini romagnoli?

La scelta di due personaggi di non grande rilievo storico è forse dovuta al fatto che il Poeta vuole celebrare non tanto dei singoli, ma un antico costume di vita generalizzato, fondato su un ideale mitico, mai vissuto integralmente ma ancora potentemente affascinante. Si tratta di una visione dell’esistenza totalizzante, basata su quelle virtù intellettuali e morali che permettono la conoscenza del “vero”, e su quelle virtù civili e cavalleresche che permettono il “trastullo”, cioè di godere di tutto ciò che rende bella, amabile, gioiosa la vita. Per questo scuote fino al pianto Guido-Dante il ricordare “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi” (a questi versi, come è noto, si rifarà l’Ariosto all’inizio del suo poema).

Per rispondere al secondo quesito occorre una piccola spiegazione storica. I due nobili romagnoli, posti qui fra gli invidiosi, vissero ed operarono nella prima metà del secolo XIII. Al tempo della maturità di Dante erano già entrati nella novellistica per la loro liberalità, cortesia. Ma proprio il desiderio di primeggiare nella cortesia poteva condurre all’invidia; cosa che sembra essere accaduta a queste due anime. Dentro la cultura cortese perfino l’assassinio veniva giustificato se nato da generosa invidia; ma per Dante tutto ciò è solo peccato ed egli lo manifesta chiaramente in questo canto.
Comunque la cortesia invidiosa è il punto di raccordo fra il peccato e il tema che domina il canto, cioè - come si è già detto - lo sdegno per la corruzione della Toscana e lo sconforto per la decadenza della Romagna, unito alla rievocazione commossa degli antichi costumi cavallereschi delle nobili famiglie romagnole.

Ma veniamo alla grande meditazione del canto. Non si può non rilevare che lo sdegno e la commozione che Dante esprime attraverso i due gentiluomini, in modo particolare attraverso Guido (e che esprimerà attraverso un uomo di corte, Marco Lombardo, nel celebre canto XVI) hanno anche una radice autobiografica: della corruzione dei Signori l’esule bisognoso, a cui viene fatto pesare il pane che mangia, ha fatto personalmente una bruciante esperienza; così come con immensa gratitudine ha sperimentato l’ospitalità di quei pochi che, legati ancora agli antichi costumi, l’hanno accolto (gli Scaligeri, i Malaspina, i signori di Ravenna). Ma al di là della vicenda personale, sono i suoi convincimenti politici, morali, religiosi che gli dettano questi versi.
Il nucleo morale e poetico del canto sta appunto nel contrasto tra un presente fatto di corruzione, di lotte, di tragedie, e un passato non lontano nel tempo fatto di gentilezza, di cortesia, di lieta convivenza civile (si tratta, come si accennava, di un ideale mitico, forse mai esistito così come Dante lo vagheggia); e tra una società dove gli uomini sono regrediti alla bestialità (la Toscana) e una società dove, nonostante l’estinguersi o il tralignare dell’antica nobiltà, si conserva ancora il ricordo della cortesia di un tempo (la Romagna).

Il rimpianto di Guido e di Dante per le grandi figure di romagnoli è anche giudizio sulla nobiltà, che deve essere soprattutto del cuore, secondo l’insegnamento stilnovistico, e sulla attuale società mercantile, fatta di “gente nova”, che ha soppiantato gli antichi abitanti, di gente tutta tesa ai “subiti guadagni” (si veda Inf. XVI, 73 sgg.), tutta dominata dalla cupidigia, dalla lupa da cui nasce l’invidia che acceca e corrompe l’onesto e lieto vivere dei cittadini; su una società in cui la virtù “per inimica si fuga / da tutti come biscia”, ove gli uomini sono considerati come carne da macello da politici degeneri come Fulcieri.
Ed ecco allora la dolorosa domanda di Guido, che si pone come condanna della cupidigia invidiosa che ha provocato la degenerazione di tutta una società: “o gente umana perché poni ’l core / là ’v’è mestier di consorte divieto?” (o uomini, perché inseguite quei beni che non si possono dividere senza che diminuiscano, e quindi che escludono la partecipazione altrui?). È a questo punto che il discorso politico-sociale comincia a manifestarsi apertamente anche come un discorso etico-religioso.
Ma la società potrebbe tornare vivibile, potrebbero tornare quei tempi se gli uomini si lasciassero severamente riprendere dagli esempi di invidia punita (Caino che, dopo aver ucciso per invidia il fratello Abele, fugge gridando: “Anciderammi qualunque m’apprende”; Aglauro, figlia di Cecrope re di Atene, mutata in sasso da Mercurio perché, invidiosa della sorella, ne ostacolava l’amore col dio) e di nuovo sollevassero lo sguardo verso l’alto; se distogliessero il cuore dai beni terreni e lo volgessero al cielo, a Dio. Il cielo, dice Virgilio, vi gira intorno “mostrandovi le sue bellezze eterne”, ma voi vi ostinate a guardare in basso, trascinati dalla cupidigia, dall’invidia; perciò Dio, che vede tutto, è costretto a punirvi.

Nel discorso di Virgilio, nella grande metafora del cielo e nel suo invito a guardare in alto, culmina il richiamo del canto, che è sì socio-politico, ma ancor più profondamente - come si diceva - etico-religioso.
Sempre lo sguardo di Dante che scrive, che è uno sguardo verso l’alto, trapassa le situazioni, gli incontri; qui va oltre la forte tensione emotiva, piena di amarezza e di nostalgia, di Guido, che pure condivide; e va nel profondo. Il contrasto in superficie è tra presente e passato, ma ultimamente è tra terra e cielo, tra valori e non valori, tra un’esistenza e una storia prive di senso e un’esistenza e una storia illuminate da Dio, tra moralità e immoralità: perché solo se gli uomini tendono a Dio costruiscono il loro destino sulla terra e al tempo stesso edificano una convivenza giusta e lieta. Infatti tutto ciò che è buono, grande, bello, giusto, vero viene dall’alto; dal basso vengono contraddizioni, mali senza fine: “Lume non è se non vien dal sereno / che non si turba mai; anzi è tenebra / od ombra de la carne o suo veleno” viene detto in Par. XIX, 64-66. Non c’è luce di verità, pace, giustizia sulla terra se non viene da Dio.

La battaglia si combatte nel cuore dell’uomo, nella sua ragione. Se egli cerca ciò che è conforme alla sua natura, ciò che sta in alto, Dio (questa è la morale per Dante, non delle regole!), realizza il bene; se egli guarda in basso, si perde nei particolari, li assolutizza, non vive le cose della terra in relazione alla totalità (è ciò che hanno fatto le anime dell’Inferno), tradisce la sua natura, dimentica o rinnega ciò a cui il suo cuore e la sua ragione sono strutturalmente orientati, corrompe la sua umanità; non raggiunge la libertà, il compimento di sé; quindi non contribuisce a rinnovare il mondo, la società. Infatti solo cambiando se stessi, solo partendo dal cambiamento del cuore dell’uomo si può attuare la renovatio mundi: ogni cambiamento sociale e politico che non parta da un rinnovamento dell’uomo - tante volte il Poeta ce lo fa capire - è illusorio.
Bisogna dunque ricominciare a cercare Dio, seguendo la natura del cuore e della ragione (“Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”: questa frase di S. Agostino è alla base della concezione del viaggio dantesco, come giustamente ha rilevato il Singleton). E Dio può essere raggiunto, sperimentato nella vita personale e sociale, perché non è rimasto nei cieli, ma si è fatto uomo, si è fatto incontro all’uomo e ancora gli si fa incontro nell’Eucaristia e in presenze umane, ecclesiali, seguendo le quali egli fa l’esperienza di quel sommo bene a cui la sua umanità anela, diventando costruttore di se stesso e della storia. È quello che è accaduto a Dante soprattutto nel suo incontro con Beatrice e poi nella memoria rinnovata di lei, che gli ha aperto la via a tanti altri incontri (oltre che a una rinnovata consapevolezza e pratica dei Sacramenti).

In questo forte messaggio sta la perenne attualità di Dante; ed è un messaggio particolarmente importante per l’uomo di oggi, che sembra avere smarrito, con la memoria della sua tradizione, la forza di sperare e di costruire un’esistenza significativa e una convivenza giusta, sopraffatto dallo scetticismo corrosivo, dall’edonismo materialistico, da quella visione ultimamente nichilistica del tutto che è alla base della cultura dominante nella nostra società.
La forza di Dante invece, quella forza che emerge limpidamente anche nel canto in questione, è la memoria, di cui lo sguardo al cielo è metafora. La memoria, che gli permette di pensare la sua vita e quella del mondo in termini di significato, di costruttività, non è appena - come si diceva - il ricordo della civiltà cavalleresca, ma è la memoria di ciò di cui la civiltà cortese-cavalleresca, così come la evoca il Poeta, era segno: un ordine superiore, fatto di giustizia, di bellezza, di letizia eterna, capace di vincere il male, la violenza, il disordine della società attuale.

Bibliografia

C. Grabher, Il canto XIV del Purgatorio in “Siculorum Gymnasium” X, 1957 pp. 151-166;

A. Piromalli, Il canto XIV del Purgatorio, in “Convivium” 1962;

G. Barberi Squarotti, Il canto XIV del Purgatorio (1966) in “L’artifìcio dell’eternità - Studi danteschi”, Verona, 1972 pp. 333-381;

S. Accardo, Il canto XIV del Purgatorio in AA. VV., “Nuove letture dantesche”, IV, Le Monnier, Firenze 1970 pp. 149-166.