Il Paradiso di Dante
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Come non ricordare qui almeno lo splendido inizio del canto XXI del «Purgatorio»? «La sete natural che mai non sazia/ se non con l'acqua onde la femminetta/ samaritana domandò la grazia/ mi travagliava..."
Nel «Paradiso» l'esaltante esperienza di questa corrispondenza aumenta man mano che egli sale; si pensi ad esempio all'inizio stupendo del canto XXVII: «"Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo"/ cominciò "gloria!" tutto il paradiso,/ sì che m'inebriava il dolce canto./ Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso/ de l'universo; per che mia ebbrezza/ intrava per l'udire e per lo viso./ Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!/ oh vita integra d'amore e di pace!/ oh sanza brama sicura ricchezza!"»

Prima di affrontare l'avventura meravigliosa del «Paradiso» occorre fare una premessa: non è facile oggi comprendere tale esperienza, per vari motivi.
Innanzitutto perché la comprensione avviene non appena per un impegno dell'intelligenza, ma soprattutto per la scoperta di una corrispondenza profonda fra ciò che si legge e la propria esperienza di uomini; per cui bisogna essere profondamente attenti e sinceri nei confronti di se stessi, bisogna essere decisi a mettere in gioco la propria umanità nella lettura. Cosa, questa, non facile quando si tratta di libri che si studiano a scuola, fossero anche sublimi come la «Commedia».
Il secondo motivo che vorrei addurre a testimonianza della difficoltà che oggi uno studente trova a leggere l'opera dantesca, in particolare il «Paradiso», è la lettura distorta che ne hanno fatto molti critici, i quali, ad esempio, hanno ignorato i presupposti più elementari della religiosità di Dante e conseguentemente della sua cultura e del mondo in cui visse, che di quella religiosità era espressione. Essi, più che ascoltare Dante, predicano una religione inficiata di protestantesimo, che dovrebbe indurre il Poeta a staccarsi sempre più dalla terra man mano che sale nei cieli; il fatto poi che egli, evidentemente, continui a provare sentimenti umani intensi e ad interessarsi di ciò che accade sulla terra è preso come una felice deroga rispetto alla sua fede, deroga dovuta alla sua appassionata, irriducibile umanità. Tale pregiudizio impedisce loro di capire che è proprio la religione del Poeta, perfettamente cattolica, che lo spinge a interessarsi profondamente di ciò che accade nel mondo, e che la sua umanità cresce proprio in proporzione della sua fede.
Il terzo motivo per cui può sfuggirci il significato profondo dell'esperienza che la «Commedia» racconta poeticamente è che continua ad agire su di noi, come sui critici, un pregiudizio romantico su ciò che è umano e ciò che non lo è, su ciò che è esperienza e ciò che non lo è. I romantici identificavano l'umano con la passionalità prorompente (di qui la loro grande esaltazione di Francesca e di Farinata, grande almeno quanto il distorcimento che hanno fatto degli intenti reali del Poeta in proposito); noi siamo inclini a fare la stessa cosa sublimando l'istinto, il sentimento soggettivo della realtà. Niente di più lontano di questo dalla mentalità di Dante. Ma mi spiego con un esempio.
In un capitolo de «L'uomo senza qualità» Musil parla di un "viaggio in Paradiso" di due innamorati che si trovano sulla riva del mare, di fronte a un orizzonte sconfinato. La natura è bella, la donna è bella, l'amore è bello: tutto, in qualche modo, evoca l'infinito. La realtà provoca a un oltre; presa sul serio, questa provocazione induce l'uomo a iniziare una ricerca in cui egli appassionatamente impegna tutta la sua libertà. Ma nei due innamorati prevale invece un atteggiamento sentimentale, estetico, sostanzialmente disimpegnato, che li porta ad abbandonarsi alle ondeggianti emozioni di quell'attimo cercando lì l'assoluto, il Paradiso. Noi in genere chiamiamo esperienza avventure analoghe, commettendo un grave errore: perché si può dire esperienza solo ciò che fa camminare l'uomo verso il suo destino. Al contrario tali avventure si aprono in genere sul vuoto; e lasciano dentro un senso ancora più grave di mancanza. È proprio quello che accade ai due innamorati quando subentra questa riflessione: e se dietro lo sconfinato orizzonte marino c'è il nulla? Allora la percezione stessa della infinità si risolverebbe in una fitta dolorosa che finirebbe col distruggere anche l'amore. Ricapitoliamo: di fronte al richiamo del Mistero l'uomo vacilla; è affascinato, ma finisce col cercare di afferrare il tutto dentro l'orizzonte della propria esperienza, nel proprio sentimento delle cose, nel fascino che provoca in lui la bellezza, nell'istinto che lo porta verso la donna. Spesso, oggi soprattutto, egli non dà inizio ad alcun reale cammino verso il significato totale della realtà, ma brucia, consuma nell'immediato quel grande richiamo; così la sua vita continua a svolgersi in mezzo al "ronzio confuso di mille voci" (per citare ancora Musil) ed egli distrugge in quel rumorio un millenario ordine di civiltà, trovandosi poi senza più alcuna difesa di fronte ai fini culturali e sociali di omologazione del Potere dominante.
Anche Dante si è smarrito; anche in lui è riaffiorata la nostalgia dell'infinito, del mistero (solo perché stretto in cuore da questa nostalgia uno può infatti accorgersi di trovarsi sperduto in una "selva oscura"). Questo non sempre accade; perciò è già tanto accorgersi di essere infelici e di aver bisogno della felicità, di essere nell'errore e di aver bisogno della verità. Ma c'è di più all'inizio della «Commedia». In mezzo alle confuse sollecitazioni che gli provengono dalla realtà (molte e profonde per un uomo così aperto alla vita), egli viene raggiunto da un appello che gli promette la salvezza e che si concretizza in delle presenze umane. La grandezza umana di Dante sta nella sua decisione di ascoltare quella voce fra tutte le altre, di scegliere quella, di seguire quella perché gli promette la salvezza, di impegnare tutta la sua libertà nella verifica di quella promessa. Ecco perché, nella rinata memoria di Beatrice, egli decide di seguire Virgilio.
Voglio innanzi tutto sottolineare questa profondità umana di Dante: la decisione di prendere sul serio il desiderio del suo cuore, di non offrirgli il palliativo delle illusioni, e di seguire chi gli ha dato la speranza della risposta. Questo è veramente un uomo, anche se peccatore, smarrito, incoerente.
Se questa decisione è l'inizio di una nuova serietà umana, di un nuovo impegno con la vita, c'è un cammino da fare per crescere. Il valore, infatti, di questa decisione è che stabilisce un inizio, l'inizio di una storia. Certo l'iniziativa è di Dio; è una congiura di misericordia fra Maria, Lucia e Beatrice nei cieli che si fa presente a Dante attraverso Virgilio. Ma all'uomo è pur sempre chiesto il suo libero assenso, il riconoscimento, l'impegno della sua libertà, il suo "fiat" come alla Madonna. La grandezza dell'uomo Dante sta nel fatto che egli dice il suo "fiat" a Virgilio. Così ha inizio un viaggio (una visione reale, analoga a quella dei profeti biblici) in cui il pellegrino è accompagnato a giudicare il male e quindi a distaccarsene; a ritrovare le capacità proprie della sua natura di uomo, a ricentrare l'atteggiamento razionale nei confronti della realtà tutta; a fare esperienza di quel livello esaltante di esperienza intellettuale ed affettiva che è la fede; e infine a vedere direttamente Dio uno trino e il Verbo incarnato. È un cammino di luce in luce, dopo la fatica iniziale; un cammino in cui la natura umana viene esaltata in tutte le sue capacità trovando il suo compimento in ciò che è altro da sé, in Dio, che pure essa porta in sé come origine e destino.
Ecco perché è Virgilio, non Beatrice, la prima guida di Dante. Egli deve aiutare Dante (e di fatto lo aiutò quando il Poeta, rileggendo l'Eneide, si accorse che l'uomo di cui poetava il grande pagano era più umano di lui che era cristiano) a ritrovare quella tensione verso il mistero che caratterizza il cuore dell'uomo, quella apertura alla verità totale che è la natura stessa della ragione.
Virgilio, l'amato poeta e maestro di vita, nasce dalla mentalità profondamente cattolica di Dante che non nega la natura (pur sapendola di per sé insufficiente alla salvezza), ma fonda su di essa la costruzione della fede valorizzandone a pieno la dignità.
Addirittura inconcepibile al di fuori del Cattolicesimo, cioè della religione di Dio incarnato, è Beatrice, la guida di Dante al "trasumanar", alla esperienza della fede. Essa è infatti la donna amata ed è anche una santa, è colei nel cui fragile volto di donna, per sempre impresso nel suo cuore, Dante sa riconoscere la tenerezza misericordiosa di Cristo, la maternità della Chiesa che si fa incontro all'uomo e lo salva. Dentro l'impeto affettivo di quel rapporto unico nella sua vita, ritrovato in tutta la pregnanza del suo significato nella memoria (Beatrice è da tempo morta), Dante sale in cielo. Il «Paradiso», fino al penultimo canto, sta per Dante, in un certo senso, tutto dentro questo rapporto, che è analogo al rapporto degli apostoli con Gesù, al rapporto di ogni credente con quelle presenze umane che sono segno, per lui, di Cristo e della Chiesa. E lo splendore crescente di Beatrice è il segno di un inveramento dell'essere che accade in Dante, di una adesione sempre più vera dell'intelligenza e del cuore alla realtà, fino a quella realtà ultima in cui e per cui tutte le cose sussistono.
Ma soffermiamoci, anche se rapidamente, su alcune parti del «Paradiso», in modo da avere una qualche idea della umanità profonda di questa cantica, certamente la più umana delle tre, perché la più divina.
Il primo canto è l'approdo esultante a questo nuovo livello dell'essere, contrassegnato dall'unità, di cui la fede fa fare esperienza; è la rivelazione di un mondo che ha un'unica Origine, che è sorretto da un'unica volontà, che è animato da un'unica tensione. Dopo gli entusiasmi per l'aristotelismo averroistico testimoniati dal «Convivio» e dal «De Monarchia» in cui Dante aveva teorizzato un fine naturale e un fine soprannaturale dell'esistenza su due piani nettamente divisi, egli ritrova l'unità profonda di tutto il reale al tempo in cui scrive la «Commedia» e alla radice c'è il riconoscimento dell'unico profondo desiderio del cuore (mentre nel «Convivio» aveva detto che in questa vita noi non desideriamo di conoscere di più di quanto è nelle nostre possibilità), di quel desiderio a cui risponde pienamente solo Cristo nella fede. Come non ricordare qui almeno lo splendido inizio del canto XXI del «Purgatorio»? «La sete natural che mai non sazia/ se non con l'acqua onde la femminetta/ samaritana domandò la grazia/ mi travagliava..."
Nel «Paradiso» l'esaltante esperienza di questa corrispondenza aumenta man mano che egli sale; si pensi ad esempio all'inizio stupendo del canto XXVII: «"Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo"/ cominciò "gloria!" tutto il paradiso,/ sì che m'inebriava il dolce canto./ Ciò ch'io vedeva mi sembrava un riso/ de l'universo; per che mia ebbrezza/ intrava per l'udire e per lo viso./ Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!/ oh vita integra d'amore e di pace!/ oh sanza brama sicura ricchezza!"». Dante sta parlando dell'altra vita, ma anche di questa vita in cui quell'esperienza è possibile nella misura in cui si aderisce a Dio resosi visibile in Cristo e nel suo corpo, la Chiesa (il «Paradiso» non è che l'apoteosi della Chiesa trionfante intorno a Cristo e a Maria, esultante nella luce e nella gioia senza fine del mistero della Trinità). A questo mondo l'uomo tende con tutto se stesso; ma egli, unico fra tutti gli esseri, è libero e può scegliere se assecondare la spinta della sua natura o contrastarla.
Il canto II è sempre apparso come un arido canto dottrinale. Ma la crescita di Dante (perché è appunto la sua personale storia di crescita quella che dà unità a tutti gli aspetti) passa anche attraverso il chiarimento di questioni intellettuali apparentemente astratte ma che in realtà corrispondono a domande profonde e a ricerche appassionate della sua umanità. Letto in questa ottica il canto delle macchie lunari costituisce un altro grande passo avanti nel riconoscimento di un ordine unitario in cui natura e soprannatura, ragione e fede, filosofia e religione confluiscono perfettamente integrandosi. In un'età di entusiasmi razionalistici, in cui molti affermavano una divisione netta di ordini e di fini (provocando la crisi più grave dei secoli dopo il Mille), tale canto è la riaffermazione dell'unità del reale da parte di un poeta che è anche un grande filosofo, teologo e scienziato. La scienza della natura non può non appoggiarsi a prospettive metafisiche, religiose; la ragione può dare solo ipotesi limitate che devono integrarsi in una visione più vasta e più profonda: questa è la certezza (sorprendentemente attuale, fra l'altro) che sottende la spiegazione - in sé legata a un rudimentale sperimentalismo - che Beatrice dà delle macchie lunari. L'anima del canto è l'entusiasmo intellettuale, l'accensione dello spirito che scopre la verità. Ed è anche questa una esperienza profondamente umana.
Il canto III, bellissimo, è quello del primo incontro con le anime beate, e dà il tono a tutta la cantica, rivelando quale è la sostanza della beatitudine. La beatitudine coincide con la carità che è l'adesione totale a Dio, creatore e redentore, e quindi la comunione con tutti. Afferma Piccarda: "Anzi è formale a esto beato esse/ tenersi dentro a la divina voglia/ per ch'una fansi nostre voglie stesse..."; e ancora: "E'n la sua voluntade è nostra pace..." Il «Paradiso» è il compimento dell'umano nella appartenenza vissuta consapevolmente a Dio, al Dio fattosi uomo, al Dio presenza personale concretamente sperimentabile dall'uomo. Non dimentichiamo il canto I in cui Beatrice afferma che l'uomo, creatura di Dio, ha dentro di sé un "impeto" che lo fa tendere a Dio. La terra propria dell'uomo è la dipendenza da Dio perché egli è per natura rapporto con Dio; ma solo quando egli, accogliendo il suggerimento della natura, riconosce che Dio si è manifestato in Cristo e vede nella Chiesa il luogo concreto, storico in cui vivere la sua originaria struttura, la vita si fa cammino passando di verità in verità, di luce in luce, fino al raggiungimento della libertà totale, quella che sperimenta Dante dopo l'"ultima visione": "...ma già volgeva il mio disio e'l velle,/ sì come rota ch'igualmente è mossa,/ l'Amor che move il sole e l'altre stelle". La «Commedia» è appunto memoria commossa e grata di quel cammino verso la libertà che Dio, attraverso presenze umane concrete, ha fatto compiere al Poeta; in particolare è tutta sospesa - come dirò - a quel momento di libertà totale, di felicità perfetta che consegue alla visione di Cristo.
Tornando al canto III, introduco una considerazione di tipo diverso. Da questo canto fino al IX Dante ha voluto esaltare, in certo senso, le inclinazioni naturali dell'uomo, quelle che possono anche diventare quelle virtù di cui parla l'«Etica» di Aristotele. Nel canto III, nel canto IV e nel V, intimamente connessi, Dante in sostanza esalta la virtù della fortezza, quella che rifulse in Muzio Scevola e in S. Lorenzo. Così il Poeta la sottolinea: "ché volontà, se non vuol, non s'ammorza,/ ma fa come natura face in foco,/ se mille volte la violenza il torza". Piccarda, a differenza di S. Chiara, non ha avuto questa fortezza eroica che Dante sommamente ammira, e tuttavia è anch'essa, in qualche modo, un esempio di fortezza, non avendo ceduto alla violenza nel profondo del cuore. La sua povera virtù, infatti, è stata come inverata, salvata in un'altra dimensione, quella della fede. Cerco di spiegarmi. L'uomo è capace di virtù perché la sua natura ha una dignità (in questa convinzione è la radice del grande umanesimo dantesco e cristiano); ma tali capacità, tali virtù, il più delle volte, nel cammino concreto dell'esistenza, non riescono a mantenersi tali (non abbiamo forse visto come è andata a finire la forza tetragona di Farinata, la fedeltà di Pier delle Vigne, la capacità affettiva di Francesca?) perché l'uomo, abbandonato a se stesso, si smarrisce (anche Dante ha fatto personalmente esperienza di questo smarrimento). È solo nel ritrovamento di una misura immensamente più grande di quella della natura che le capacità naturali si trasformano realmente in virtù, vengono inverate. L'umano, per essere veramente tale, ha bisogno di Cristo, verità dell'uomo e via, nella Chiesa, a tale verità. Ecco allora che la fragile virtù di Piccarda, vissuta alla luce della fede, diventa anch'essa qualcosa di grande, di esemplare per tutti gli uomini. Piccarda non è, in partenza, più "virtuosa" di Francesca; ma ha seguito una scuola diversa, non quella dei romanzi cortesi bensì quella di S. Chiara, imparando a vivere di fede. E nella fede ha trovato la forza per resistere, per sviluppare la sua fragile, gentile umanità. La commozione, la devota partecipazione con cui il Poeta la ascolta e la guarda allontanarsi e svanire a poco a poco "Ave Maria cantando" sono il suggello di questo suo intimo, umanissimo e cristianissimo sentire.
Ma in questi primi cieli vengono esaltate anche altre virtù. Dante ha celebrato in Romeo di Villanova l'amore per la gloria terrena (amore che affonda le sue radici nella greca magnanimità o "megalopsichia") divenuto un amore così grande per la gloria vera da far sopportare e accettare anche la più brutale denigrazione. Figura della grandezza umana e cristiana di Dante esule, Romeo splende accanto a un altro grande che, animato da un naturale amore per la gloria, fini per scoprire la gloria vera nella fede obbediente alla Chiesa di Dio: Giustiniano. Ma qui il discorso si fa complesso. Egli, facendo l'elogio dell'Aquila, dice che la sua gloria personale è parte di quella di tutta la storia di Roma; ed evoca tale storia in versi profondamente commossi (è questa commozione che rende poeticamente vivo, vibrante, quello che altrimenti potrebbe apparire un arido elenco di nomi e di fatti) tesi a cogliere nell'epopea di tutto un popolo il manifestarsi di una virtù straordinaria e il segno di una precisa volontà da parte di Dio. Sono vicende sacre quelle che Giustiniano ricorda (non dimentichiamo che Dante vede, accanto alla storia sacra di Israele, voluta da Dio per preparare l'avvento di Cristo, un'altra storia in un certo senso anch'essa sacra, analogica rispetto alla storia biblica: quella del popolo romano, predisposta anch'essa da Dio per aprire la strada alla venuta del Cristo e della sua Chiesa), vicende in cui le vie di Dio si sono incontrate con la virtù umana della giustizia (Dante vede anche l'ingiustizia, la violenza nel mondo romano, ma è persuaso del sostanziale senso di giustizia di tale popolo). Ora, in piena età cristiana, bisogna continuare tale storia che in Giustiniano, imperatore romano e cristiano, raggiunse il suo vertice: occorre rinnovare la fiducia nell'Impero, che porta il disegno divino della unità fra gli uomini come strada al Cielo, con analogo concorso di virtù umane, sorrette e inverate, ovviamente, dalla fede.
Vorrei parlare ancora degli spiriti "amanti" del cielo di Venere. Sono questi canti molto belli su cui non posso soffermarmi. Cito solo un personaggio, Folchetto da Marsiglia, il trovatore convertitosi (come tanti altri trovatori) dall'amor cortese all'amor cristiano, e divenuto poi vescovo. Egli è una grande testimonianza di come l'impulso ad amare si può distorcere e di come esso può essere recuperato e inverato nella fede; a tal punto che ormai non c'è più neanche posto per il pentimento, ma solo per l'esultanza grata a Dio che ha volto definitivamente al bene l'inclinazione della natura, che l'ha salvata e trasformata in virtù reale: "Non però qui si pente, ma si ride,/ non de la colpa ch'a mente non torna,/ ma del valor ch'ordinò e provide".
Faccio, a questo punto, una considerazione più ampia.
Virgilio, nel canto XVII del Purgatorio, distingue un amore naturale, istintivo, e un amore che è scelta razionale e libera; e nel canto XVIII, sempre del Purgatorio, afferma che non ogni amore è "in sé laudabil cosa", ma solo quello che corrisponde alla natura razionale dell'uomo. In altre parole, basta la ragione, cioè Virgilio, per condannare il peccato di Francesca e di tutti i lussuriosi dell'Inferno (coloro che "la ragion sommisero al talento") e per capire che Amore non è un dio, non è una fatalità irresistibile. Ma esistenzialmente, storicamente accade che l'uomo non riesca a vivere le indicazioni della sua natura (quelle che il pur giusto discorso di Virgilio mette in evidenza); e che cada nell'irrazionalità, nel peccato, appunto come Francesca, come i trovatori, come gli stilnovisti che Dante incontra nel Purgatorio, nella cornice dei lussuriosi. Ancora una volta è la fede che raccoglie, orienta le capacità umane, le porta a compimento salvando l'uomo dalla sua fragilità, dal suo squilibrio. Virgilio ha ragione, ma Virgilio non basta, come egli stesso riconosce: "Quanto ragion qui vede/ dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta/ pur a Beatrice, ch'è opra di fede" (Purgatorio XVIII). La fede non solo rende possibili le virtù umane ma le compie, perché ora l'amore di Folchetto, l'amore di Cunizza è ben più che amore naturale: è caritas, cioè riconoscimento di Dio in Cristo e nella Chiesa, e comunione profonda con tutti i fratelli.
Dal canto XI al canto XXII Dante esalta grandi santi, la cui virtù non è più così strettamente legata alle inclinazioni naturali. Ma qui occorre sottolineare un caratteristica generale della personalità del Poeta.
Dante è anche un teologo profondo e un dialettico sottile; ma è soprattutto un cristiano appassionato ai problemi della Chiesa, della comunità dei credenti, sollecito per i problemi di natura pastorale, desideroso in primo luogo di una riforma religiosa e morale. Questo orientamento diventa evidentissimo nei canti del cielo del Sole, in cui egli incontra gli spiriti sapienti. Proprio qui, fra tanta sapienza di cose divine, il Poeta resiste alla tentazione di aprire un dibattito sui problemi più discussi della sua epoca (su cui, fra l'altro, c'erano concezioni non meno contrastanti con la verità di quanto non lo siano oggi le concezioni neopositivistiche, neoidealistiche, marxistiche); e non indulge neppure alle polemiche fra gli ordini religiosi, polemiche dovute a una mancanza di sapienza, al non capire che è tutto prezioso e necessario agli occhi di Dio: l'alta dottrina domenicana e l'umile predicazione francescana.
S. Tommaso, una figura a cui non si è mai dato abbastanza rilievo, è in questo senso esemplare. Personalità completa, egli è animato da un grande amore per Cristo e per la sua Chiesa ed è dotato di una intelligenza profonda e sottile; ma ha anche l'umiltà del semplice credente, devoto ai grandi santi, sensibile ai bisogni concreti della Chiesa, attaccato anche alla più popolare pratica religiosa. S. Tommaso risponde ai dubbi teologici di Dante con un linguaggio conforme alla sua cultura e alla sua genialità; ma fa anche l'elogio di S. Francesco con la devozione dell'uomo di fede che ha intuito la sconfinata grandezza del Poverello di Assisi. Anzi, per tessere l'elogio, S. Tommaso usa un linguaggio alto, fatto di immagini sottili e preziose che fanno risaltare la gloria di S. Francesco.
Il suo discorso è tutto volto a mettere in evidenza la funzione del Santo nella Chiesa. Non si capirebbe nulla del suo elogio se non si avesse sempre presente la considerazione che Francesco e Domenico sono stati inviati entrambi dalla Provvidenza per aiutare la Chiesa ad andare verso il suo sposo, Cristo. Non sono uguali, ognuno ha la sua personalità, ma ciò che conta è l'azione ugualmente benefica che essi hanno svolto a favore della Chiesa. Raccontando poi la vita del Santo, il grande Tommaso non indulge sulle tante pie leggende che fiorirono intorno alla sua figura, ma mette unicamente in rilievo lo sposalizio con la Povertà e la sua importanza per la Chiesa.
I canti di Cacciaguida, introdotti dal XIV, sono dominati dalla croce vittoriosa, da cui proviene un grido gioioso: "Resurgi" e "vinci". In questa luce, che è luce di resurrezione pur nel ricordo del dolore e della morte, viene in primo piano Dante stesso che, illuminato dalla santità dell'avo, prende coscienza del significato profondo del suo esilio nella prospettiva della sua missione. Sono questi realmente i canti di Dante, ma non i canti della sua famiglia e dei suoi fatti privati, dei suoi sentimenti e delle sue malinconie. No. Dante va a Cacciaguida come Enea andò dal padre Anchise per chiedere conferma del suo destino e del suo compito. Di fronte a Cacciaguida, morto combattendo per la fede, Dante si riconosce ("voi mi levate sì, ch'i son più ch'io") e riconosce il suo compito, lo accetta, abbracciando anche il sacrificio che a questo è connesso, il sacrificio nel suo aspetto più doloroso: l'esilio. Ma l'esilio è appunto condizione di quella maturazione personale che lo rende atto a svolgere il grande compito: "per crucem ad gloriam" si può qui dire di Dante, ma anche di Cacciaguida, in cui il Poeta ritrova come un se stesso antico. In realtà egli è andato all'avo non tanto per una spiegazione circa il suo futuro, ma proprio per trovare, nell'incontro con un martire particolarmente responsabile della sua fede perché legato a lui da un vincolo di sangue, l'accrescimento di quella fede stessa. E così accade: Cacciaguida lo conforta, lo fortifica, lo rende atto al compito che deve svolgere sulla terra, facendogli sperimentare come un nuovo inizio che lo predispone ai sublimi incontri dei cieli successivi.
Dopo essere arrivato al cielo di Giove ove comprende che la giustizia divina è un mare profondo, inscrutabile, pur essendo in qualche modo da noi sperimentabile e attuabile, Dante, con gli occhi fissi a Beatrice, sale al cielo di Saturno, ove subito pone una domanda importante per la sua fede: perché quell'anima, non un'altra, è stata prescelta da Dio per venire da lui? Ma qui l'accanito domandare di Dante subisce una fase di arresto; egli si sente rispondere infatti da S. Pier Damiani che neanche un serafino potrebbe penetrare nell'abisso del volere divino. Procede poi il canto con l'esaltazione della santità austera di S. Pier Damiani, emergente da un paesaggio scabro e solitario. Anima di contemplativo ma anche di pastore sollecito per le vicende concrete della Chiesa, S. Pier Damiani è avvicinato alla figura di S. Benedetto (canto XXII), a colui che, contemplando gli splendori celesti, ha avuto l'ispirazione di creare un grande modello di vita comunitaria, quello benedettino appunto, che ha cambiato il volto della storia dell'Occidente. In bocca a S. Benedetto, Dante pone una delle più belle definizioni della vita monacale: "Qui è Maccario, qui è Romualdo,/ qui son li frati miei che dentro ai chiostri/ fermar li piedi e tennero il cor saldo". Si tratta di forme di vita, quella di S. Pier Damiani come quella benedettina, che affascinano Dante e che egli propone come esemplari alla Chiesa del suo tempo (insieme, ovviamente, alla forma francescana e a quella domenicana).
Dopo un ultimo sguardo alla terra, vista con distacco nella sua piccolezza e con preoccupazione nella sua ferocia, Dante sale al cielo delle stelle fisse. Qui egli raggiunge un nuovo livello dell'essere, di verità, come è stupendamente detto dai toni chiari e dall'arte finemente lavorata del meraviglioso canto XXIII.
Dal canto XXIV ha inizio l'esame di Dante sulle virtù teologali. I discorsi che occupano tali canti non sono aride disquisizioni scolastiche, ma emozionanti colloqui, un sublime rendere ragione di quell'ideale per cui e di cui Dante e i suoi esaminatori vivono in perfetta comunione di concezione e di intenti. "Fides quaerens intellectum" si diceva allora. E Dante, per poter procedere verso una più alta visione di Dio, deve dichiarare a S. Pietro che cosa crede e mostrare i fondamenti razionali della sua fede. Due punti emergono dalle risposte di Dante: la ferma dichiarazione di fede ("sì, ho, sì lucida e tonda/ che nel suo conio nulla mi s'inforsa") di estrema importanza in tempi in cui era forte, oltre la fede, anche l'incredulità; le argomentazioni di carattere storico esistenziale, con cui egli risponde a obiezioni di tipo razionalistico. È questa una preziosa indicazione di metodo che noi, che viviamo in tempi dominati da metodi conoscitivi imposti dalle ideologie, non possiamo trascurare se veramente cerchiamo la verità.
Il canto XXV ha nel «Paradiso» un'importanza analoga a quella dei canti di Cacciaguida. Prima che l'apostolo Giacomo sottoponga Dante all'esame sulla speranza, Beatrice presenta l'amico discepolo con una lode altissima: "La Chiesa militante alcun figliolo/ non ha con più speranza...". Non è un'esagerazione: veramente la virtù cristiana della speranza ha dominato la vita di Dante ed egli ha voluto essere solo questo: l'uomo, il poeta della speranza, di quella speranza che è un "attender certo" fin da ora, di quella speranza che non fallisce perché è fondata sulla promessa di Dio, già presente fra noi in Cristo e nella Chiesa. Tale speranza, che Dante trova in sé a livello eccelso e che è puro dono di Dio, riguarda dunque l'esito ultimo dell'umana vicenda ma anche l'esistenza su questa terra. Fin da ora la vita può cambiare, con l'aiuto di Dio, per Dante stesso e per l'intera cristianità; per questo bisogna operare (ecco la missione di Dante e di ogni cristiano!), certi del soccorso che Dio, come sempre, manderà alla sua Chiesa, a ciascuno nel difficile cammino della esistenza. Forte di questa speranza, Dante può guardare impavido, "tetragono" alle sue personali dure prove, alla corruzione del mondo, a quella tanto più dolorosa degli uomini di Chiesa indegni (si pensi all'appassionata invettiva di S. Pietro nel canto XXVII). Il dolore è grande, ma la speranza è certa e trasforma quel dolore stesso in un prezioso mezzo di rinnovamento. Cristo è risorto veramente: questo è il fondamento incrollabile della speranza del cristiano Dante, la cui vita terrena, come quella di ogni cristiano, è già resurrezione in atto, pur trovando il suo compimento nell'aldilà, con la resurrezione anche del corpo. Così, col pensiero della resurrezione ultima, egli passa dall'esame sulla speranza a quello sulla carità. L'interrogativo che il pellegrino pone circa il corpo dell'apostolo Giovanni non è la curiosità di un appassionato di sottili questioni teologiche, ma coincide col bisogno di far memoria della resurrezione per legare la virtù della speranza a quella della carità. Mi spiego: la speranza non può essere veramente tale se non implica la certezza della resurrezione del corpo; ma questa certezza non può sussistere se non poggia su un pegno già presente: tale pegno è appunto quello del corpo di Cristo risorto, e anche quello della preservazione del corpo di Maria dalla corruzione (una specie di resurrezione anticipata). Ora, solo questa speranza certa permette quell'agire sublime che è la carità, la virtù celebrata appunto di fronte all'apostolo Giovanni.
Passo agli ultimi canti, ma prima di procedere oltre, voglio ribadire che in questo senso della storicità della salvezza, in questo senso profondo del corpo e del corpo risorto è evidente, ancora una volta, la grande umanità di Dante e la perfetta cattolicità della sua fede.
Dal canto XXVIII alla fine - ma io qui non posso che fare un rapido cenno - Dante contempla la gloria della Chiesa trionfante; poi, per intercessione della Madonna pregata da S. Bernardo, egli consegue la visione diretta di Dio e l'intuizione, in un lampo, del mistero dell'Incarnazione. Sono meravigliosi canti in cui Dante poeta fa le sue più alte prove, in un corpo a corpo con flussi di luce che lo investono con uno sfolgorio insostenibile, con armonie indicibili, con quel "riso de l'universo" che sembra sommergerlo e che le parole umane non riescono ad esprimere. La lotta è perché tutto questo diventi parola veritiera, credibile, parola poetica; e certo Dante, che tante volte si dichiara vinto con l'umiltà di ogni vero artista, qui ha superato se stesso, riuscendo vincitore nella prova più alta che mai poeta abbia affrontato. Uno stupore senza fine è il tono della poesia di questi sublimi canti per la pienezza di essere che si rivela, per il debordare gioioso delle esperienze ("io, che al divino da l'umano,/ a l'etterno dal tempo era venuto,/ e di Fiorenza in popol giusto e sano,/ di che stupor dovea esser compiuto!" XXXI). È questo il vertice della esperienza umana e poetica di Dante.
Il Poeta ha fatto lo sforzo supremo di raffigurarsi il Paradiso anche nei dettagli, portando all'estremo la tendenza dell'artista medievale a rappresentare concretamente le realtà soprannaturali; e in questo tentativo si è portato dietro le sue domande di umile credente, innamorato di quel mondo, desideroso di saperne di più perfino intorno alla creazione degli angeli, alla loro caduta, ad Adamo, alla disposizione dei beati in Paradiso. Le questioni che occupano alcuni di questi canti, in altre parole, sono astratte solo per il lettore moderno, spesso privo di memoria cristiana, non certo per Dante e per i suoi lettori medievali.
Faccio un rapido cenno al canto XXXIII (e mi dispiace di non potermi soffermare sul canto XXXI in cui Dante ringrazia Beatrice con una splendida preghiera - analoga a quella che S. Bernardo rivolgerà alla Madonna - in cui è contenuto l'elogio più grande alla donna amata: "Tu m'hai di servo tratto a libertate..."). Qui è la "finis", cioè il compimento. È un canto non di "astrattezze metafisiche", ma di caldi umanissimi incontri e di fervide esperienze, le più alte che ad uomo sia dato di fare.
Alcune considerazioni. La Madonna, colei il cui nome Dante sempre invoca "e mane e sera", come sappiamo dal canto XXIII, è qui ciò che è nella tradizione cristiana: colei che ha permesso l'Incarnazione e che continua a intercedere per tutti gli uomini perché accettino questo fatto salvifico. La riscoperta più profonda della figura della Madonna, che avvenne in quell'epoca anche grazie a grandi santi come Bernardo, è anche una riscoperta del fatto fondamentale del Verbo fattosi uomo, in cui natura e soprannatura, umano e divino, finito e infinito, tempo ed eterno, si sono uniti indissolubilmente. Questa consapevolezza è fondamentale per l'umanità e la poesia di Dante. Le sue immagini di infinito infatti non lo lasciano in balia di ondeggianti emozioni (come invece accade agli innamorati di Musil) perché non sono illusione; dietro di esse infatti non c'è il vuoto, ma una Presenza, quella che si manifesta nella figura della Madonna e di tutti i Santi, quella che ultimamente ha il volto di Cristo.
La seconda parte del canto è quella in cui Dante, portato al limite estremo il suo desiderio (è la parte che gli spetta in questa vicenda guidata da Dio!), ha la visione diretta di Dio Uno, come punto luminoso che contiene in sé tutte le cose contingenti (mai la realtà è dimenticata da Dante!), poi di Dio Trinità. Fissando il cerchio del Figlio, Dante lo vede dipinto "de la nostra effige", cioè vede il volto di Cristo; ed è tutto desideroso di conoscere come il divino si è unito all'umano, di penetrare quel mistero che risponde al sospiro più profondo di ogni cuore umano e di ogni cultura. Per grazia ne ha per un attimo l'intuizione, ma non ricorda nulla. Grazie a questa, però, la sua libertà aderisce ormai perfettamente all'amore divino ed egli è pronto a tornare sulla terra e ad iniziare la sua missione: la scrittura della «Commedia». Tutta la «Commedia» è sospesa all'istante di quella folgorazione: in esso, cioè nella fede nel Cristo, Dio e uomo, la «Commedia» trova il fondamento della sua verità umana, del suo realismo rappresentativo, della sua sublime poesia.
Bibliografia essenziale
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Rimandiamo inoltre a:
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