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San Francesco d’Assisi: la Lauda e Jacopone

Autore:
Filippetti, Roberto
Fonte:
www.itacalibri.it
Il Per-Corso e i percorsi.

Schede di revisione di letteratura italiana ed europea

Cantico di Frate Sole

Anche il Cantico di Frate Sole va simpateticamente letto dal punto di vista di chi l'ha scritto. Si rischia altrimenti di darne un'interpretazione riduttiva, fuorviante, errata: panteistico inno alla Natura con la quale coincide il divino; romantico slancio d'amore per tutte le creature; umanistico e antropocentrico concerto di lode, ove però «l'armonia della musica mondana» (sic!) è nelle ultime lasse «crudelmente spezzata» (Leo Spitzer).
Il metodo per capire il Cantico è ancora guardare a Francesco, Speculum Christi, innamorato della Chiesa, cosciente di dover guidare anche con questo componimento la fraternità che il Signore gli aveva donato.
Il Santo lo dettò, secondo la tradizione, nel 1224, durante una degenza in San Damiano a motivo di sofferenze acutissime: la febbre quartana e il tracoma agli occhi che l'aveva reso semicieco e - come spiega Franco Cardini - «gli procurava bruciori, pruriti e una continua lacrimazione sanguigna e purulenta» (tentarono di curarlo col cauterio: una bruciatura, fatta col ferro rovente, dalla mascella al sopracciglio). Il Cantico fu dunque scritto in un tempo di «perfetta letizia»: non è vero che - come scrive Giorgio Petrocchi - il Santo, «affetto da cecità, ricercava con gli occhi della fantasia la bellezza delle cose»; lontano da ogni forma di evasione fantastica, è vero piuttosto che in Cristo crocefisso e nella certezza del premio che l'attendeva, Francesco aveva fatto ancora l'esperienza reale dell'«amaro che gli fu mutato in dolcezza». Qui sta «la sua irraggiungibile incomprensibilità per noi moderni» (F. Cardini).
Il Cantico si presenta come litanico componimento di trentatré versetti, scandito in gruppi strofici dell'anafora «Laudato si'» e scritto in una prosa ritmica modellata sul salmi biblici. Le poche rime o rime al mezzo («Signore-onore-splendore-amore»; «stelle-belle»; «vento-sustentamento»; «incoronati-voluntati»; «corporale-male»; «rengratiate-humilitate»), le molte assonanze, la presenza del cursus (le codificate clausole ritmiche della prosa latina medievale), la cura nella distribuzione delle serie aggettivali, l'uso non del dialetto ma del volgare illustre: tutto insomma conferma come l'autore «volle rivestire la lode del Signore in lingua di sì del condecente ornamento retorico» (Gianfranco Contini), dandoci così il primo monumento letterario italiano.
Francesco, che era stato un giullare, scrisse anche la musica per questo testo, e chiedeva ai confratelli di cantarlo spesso.
Si tratta di un componimento forse abbozzato di getto, ma poi limato. Molte le reminiscenze bibliche: il racconto della Creazione nella Genesi, i Salmi «delle lodi» (in particolare il 148), il «Cantico dei tre fanciulli» (Dn 3,46-90), le Beatitudini evangeliche.
Sia il Cantico di Daniele che quello di Francesco hanno una struttura a cerchi concentrici: quello elevato dai tre fanciulli parte dal cosmo, passa per il popolo d'Israele, poi «si restringe sempre più - come nota Spitzer - per finire con quelle tre esistenze concrete» (Anania, Azaria, Misael); analogamente l'inno del poverello di Assisi porta in scena dapprima i tre corpi celesti (sole, luna, stelle) poi, con sguardo che da verticale si fa orizzontale, i quattro elementi empedoclei (aria, acqua, fuoco, terra), infine - nel cuore della terra - stringe sull'uomo come creatura capace di perdono, e su «sora nostra morte corporale» nella prospettiva escatologica.
Ma mentre nel modello biblico le creature e l'uomo attivamente lodano il Signore («benedite… lodatelo»), Francesco usa il passivo. «Laudato si'...». Egli lo fa, come si legge nello Speculum perfectionis, «per incitare alla lode di Dio i cuori di coloro che ascoltano ed affinché Dio stesso venga lodato dagli uomini nelle sue creature».
Si chiede tuttavia Spitzer: «Perché san Francesco non dice Lodiamo (noi uomini) Dio, dando all'uomo la sua qualità distintiva di "saper lodare"?». La domanda è viziata - letteralmente - da un errore di prospettiva: sarà la prospettiva del divus moderno, codificata due secoli dopo da Leon Battista Alberti, che affermerà il punto di vista dell'individuo; invece l'uomo autenticamente religioso del medioevo, riconoscendosi creatura, «fatto da», dipendente dal Mistero, afferma come centrale la soggettività del Signore (sarà, in pittura, la prospettiva rovesciata delle icone orientali: si pensi alla celeberrima Trinità di Rublëv).
L'uso del passivo indurrebbe, sulla scia di Vittore Branca, ad interpretare come complemento d'agente il «per» («per sora luna e le stelle… per frate vento… ecc.»); la tradizione francescana attribuisce al «per» un significato causale; noi senza escludere queste interpretazioni, amiamo leggere - col Pagliaro - quel «per» come «attraverso». Dio è lodato «attraverso» le creature (o «da» esse, o «per» aver dato loro la vita).
Il distico che apre solennemente il Cantico connota il Signore con tre aggettivi, fortemente pausati, e quattro sostantivi. Simmetricamente il distico conclusivo presenterà quattro verbi imperativi. L'uomo compare come colui che non è neppure degno di pronunciare il nome di Dio.
Fra le creature, la prima è quella che dà il titolo al Cantico, «lo frate sole»: utile a noi uomini perché «attraverso» lui il Signore provvidente ci illumina; portatore di bellezza, «splendore» del Vero; immagine e figura di Dio. Ma come il sole, anche tutti gli altri corpi celesti ed elementi terrestri portano «significatione» dell'Altissimo: non a caso sia l'acqua che le stelle son dette «pretiose»: un aggettivo che Francesco in tutti i suoi scritti «riservava sempre e solo per l'Eucaristia» (A. Sicari). Scendendo dall'infinitamente grande ai piccoli «coloriti fiori et herba» (v. 22), l'Autore manifesta lo stesso delicato stupore di fronte alla bellezza del reale, utile in sé e soprattutto segno di altro.
Decisamente, il suo non è uno sguardo idillico sulla natura, che nel medioevo bisognava tenere a freno con faticose ed eroiche campagne di bonifica e disboscamento.
Quanto agli animali, questi nel Cantico non compaiono proprio; e in altri scritti Francesco attesta di amarli perché vede in essi o il Creatore che li ha fatti o il Redentore che essi simboleggiano.- prova affetto per un verme perché nella Scrittura è detto «Io sono un verme e non uomo»; si commuove davanti ad un agnello pensando all'Agnello di Dio; predilige le creature aeree e soprattutto «la sorella allodola che ha il cappuccio come i religiosi e volando loda il Signore».
Solo chi non comprenda ciò e voglia ridurre Francesco entro gli schemi dell'ideologia ecologista e naturalista, può permettersi di contrapporre ottimismo iniziale e pessimismo finale («Guai a quelli...»); in verità il Cantico di Frate Sole è esempio perfetto di realismo cristiano (cf Mimesis di Auerbach): al vertice del creato, che è «ana-logia» e figura del Creatore, sta l'uomo libero, capace per Grazia di perdonare e di testimoniare che in Cristo crocifisso anche la malattia e il dolore hanno un senso, e in Cristo risorto la morte è "sorella morte"; ma libero anche di camminare verso la dannazione eterna. Il Dio che nella Genesi fu Carità creante, poi «centro del cosmo e della storia» come Carità che redime, alla fine dei tempi sarà Carità che giudica (è questa anche la struttura degli affreschi giotteschi alla Cappella degli Scrovegni).
La beatitudine eterna (e «il centuplo quaggiù») sarà il premio di chi ha affermato nella vita fiat voluntas Tua, perché - come dirà Dante sulla scia dei vv. 25 e 30 di Francesco - «e 'n la Sua voluntade è nostra pace». Nel tempo, urge fondare la vita su quella «grande humilitate» che sigilla il componimento.
Sentendo ormai prossima la fine, Francesco scrive a Jacopa de' Settesoli: «...E porta con te un panno di cilicio in cui tu possa avvolgere il mio corpo e la cera per la sepoltura. Ti prego anche di portarmi di quei dolci che eri solita darmi quando mi trovavo ammalato a Roma». Umile penitenza per ricordare il Signore, non orgogliosa ascesi come sforzo dell'individuo: quei dolcetti sono lì a ricordarcelo. Il Santo si spense sabato 3 ottobre 1226, al tramonto: per la Chiesa era già l'inizio della domenica. E come se fosse già l'alba, le allodole si alzarono in volo sopra la Porziuncola. Allodola, alauda, alleluia ("alelù-Jah": lode a Jahvè): "Laudato si', mi Signore".

La Lauda e Jacopone

Innocenzo III, eletto papa nel 1198, volendo riformare la Chiesa e lottare contro l'eresia, valorizza e appoggia i movimenti (poi ordini) mendicanti – in particolare Domenicani e Francescani – i quali con le parole, con le opere e con la letizia della vita, corroborano la fede del popolo.
"Il 1233 è l'anno dell'Alleluia, manifestazione di pietà pubblica promossa dagli ordini mendicanti" (M. ROSSI, A. ROVETTA, E. PAROLA, La lauda medievale, Itaca Castelbolognese 1997, p. 8); nel 1260 nascono i Disciplinati, e si moltiplicano poi altre confraternite di laudesi; del decennio successivo sono i primi testi dello splendido Laudario di Cortona. Laude alla Vergine; ai diversi momenti dell'Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Cristo; ai santi; infine, connotate da esasperato realismo, "laude de la morte".
Ma è con Jacopone da Todi (1236? – 1306) che la lauda assume dignità d'arte. Colui che era stato un ricco notaio, e che si era convertito con amore infuocato a Cristo quando – nel 1268 – gli era morta tragicamente la moglie, la quale portava sul corpo il penitenziale cilizio, qualche anno dopo si fa frate ed entra negli Spirituali francescani: è per i suoi confratelli, "per la consolazione e il profitto degli studenti novizi" (ibid. p. 47) che compone le laude.
Laura Cioni (in "Il nuovo areopago" n. 3/1998, pp.70-76) ne ripercorre l'itinerario poetico, sulla scia del De Sanctis. Jacopone è forte e dolce insieme, semplice ma non indotto (è lui l'autore dello Stabat Mater dolorosa). Commovente la tenerezza con cui egli ci parla di Maria che contempla Gesù Bambino nella vita di tutti i giorni: "Quando un poco talora il dì dormiva", Ella – giunta l'ora di svegliarlo – andava da Lui piano piano, lo baciava, godeva nel prenderlo in braccio. Umanissima Madre. Con espressioni "così fresche e felici, che non disdegnarono di imitarle Dante e il Tasso" (De Sanctis), Jacopone ha cantato la vanitas della carne, l'incombenza della morte (lauda XXV), l'antitesi tra amore carnale e spirituale, (XXXIV), la vis polemica nei confronti del papa Bonifacio VIII (LVI, LVIII) e l'esplosione di gioia di chi è chiamato a cantare il "regno celesto, - che compie onne festo / che 'l core ha bramato" (LXIV); di chi esulta: "O iubilo del core, - che fai cantar d'amore!" (LXXVI). Perché "Amor, amore, grida tutto 'l mondo, / amor, amore, onne cosa clama". Infine il capolavoro: quel Pianto de la Madonna, "inizio della lauda drammatica che si svilupperà poi nel dramma liturgico fino alla fine del Quattrocento" (Cioni).