Un prete americano a Nablus, Cisgiordania
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L’ultima serata in albergo è impreziosita dalla sorprendente testimonianza di don Vincent Nagle, del quale avevamo già letto un articolo sulle “pietre vive” della Terrasanta, in un dopocena a Tiberiade. Stavolta ce lo troviamo davanti, vivacissimo e simpatico, a raccontarci della sua vita e delle svolte imprevedibili che essa ha assunto. Dall’ospedale di Attleboro in Massachusets, cappellano con altri due missionari della Fraternità sacerdotale san Carlo Borromeo (cfr. Vincent Nagle, Sulle frontiere dell’umano. Un prete tra i malati, Rubbettino), si trova catapultato nel 2006 in Terrasanta. L’invito era arrivato da Sobhy, e dalla moglie, vicepresidente dell’Università cattolica di Betlemme. Il suo compito è quello di cappellano al Campus studentesco; i cristiani – come già ben sappiamo - sono una minoranza. Il suo arrivo nel 2006 coincide con la crisi libanese; i pellegrinaggi sono sospesi e i Luoghi santi rimangono deserti di visitatori stranieri. Poi l’incontro con Fouad Twal, già vescovo di Tunisi, che diverrà l’anno successivo Patriarca di Gerusalemme: questi lo spedisce in Giordania ad imparare l’arabo (la Diocesi di Twal comprende Israele, Palestina, Giordania e Cipro). Oltre che segretario di Fouad Twal, don Vincent diventa parroco a Nablus in Cisgiordania (“C’era bisogno!”): 400 cattolici su 130.000 abitanti.
“La situazione degli Arabi cristiani nel tempo si è molto deteriorata”, ci dice don Vincent, “essi ricoprivano un grande ruolo sociale, erano circa il 25-30% della popolazione araba, portavano scuole e cultura, erano professionisti, medici, ingegneri... ma i tempi sono cambiati. Nella società tribale la stima sociale è potere reale, differenzia la tua vita. Senza considerazione non puoi vivere, allora – molti pensano - è meglio emigrare. Sospettati da parte israeliana, attaccati da parte mussulmana, gli Arabi cristiani in Terrasanta si sono trovati meno sicuri e più umiliati, senza considerazione sociale, al di sotto di tante tribù mussulmane. Senza lavoro, sono emigrati in massa, soprattutto in America (a Santiago del Cile ci sono 300.000 palestinesi cristiani) e nel Golfo Arabo: sembra quasi che si voglia annientare la presenza cristiana in Medio Oriente. Solo in Giordania c’è maggior rispetto e valorizzazione”. Ma don Vincent non si sofferma troppo a lungo su queste amare constatazioni; racconta invece miracoli e avvenimenti della sua esperienza a Nablus. “Nablus ha lo stesso nome di Napoli, si chiamava “Flavia Nea-polis”, che vuol dire città nuova; lì c’erano i Samaritani, ed il pozzo di Giacobbe dove Gesù incontrò la Samaritana. Di Nablus era san Giustino, Padre della Chiesa, apologista e martire a Roma nel II secolo d. C.; e per un incredibile caso della vita la mia conversione – sono di madre ebrea – avvenne proprio leggendo san Giustino. Prima di Natale ho visitato ad una ad una tutte le famiglie cristiane della mia parrocchia, anche i protestanti. Abbiamo rapporti stretti con gli Ortodossi; noi celebriamo la Pasqua con loro, e loro celebrano il Natale con noi. Anche con i mussulmani abbiamo rapporti di buon vicinato; anzi dopo una visita alle suore di Madre Teresa, questi ultimi, commossi e colpiti, si sono impegnati a sostenerle economicamente, perché vedono ciò che fanno e lo apprezzano. Se noi Cristiani di qui avessimo una grande fede, riconoscessimo i segni, vivessimo una speranza, tutto cambierebbe e i nostri figli non ci abbandonerebbero. Un ingegnere che era emigrato negli USA è tornato qui, con sacrifici terribili: ora per campare vende giornali o aggiusta macchine abbandonate. Ma richiesto del motivo per cui è tornato, risponde: “Noi amiamo la croce perché amiamo Chi sta sulla croce!”. Se solo potessimo incoraggiare la fede... Anche i Movimenti possono giocare in questo, contagiando tutti con l’amore alla croce”. Fioccano poi le domande, molte sulla guerra in corso e sul rapporto tra Israele e Palestinesi. Don Vincent non si sottrae, esprime dolore e sofferenza nella condivisione di ferite continue, e individua negli insediamenti abusivi dei coloni ebrei, e nel progetto di Hamas, contrario al bene del popolo palestinese, due spine molto difficili da risolvere. Ma non bisogna stancarsi di lavorare, ascoltando le pietre del passato, ma soprattutto le “pietre vive”, la comunità cristiana che vive qui. Don Franco conclude: “Non lasciamoci ingabbiare da logiche di schieramento, prendendo le parti degli uni o degli altri. Cristo si è commosso per l’uomo. Noi non siamo chiamati a fare gli arbitri, ma a giocare la partita”. E don Vincent chiosa: “Dopo il peccato originale non ci sono soluzioni, ma risposte. Cristo risponde a te, non risolve i problemi”.