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Reliquie e immagini: legittimità e culto

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Perché abbindolare la credulità popolare “inventando” reliquie di Gesù?
Lo scopo è certamente e solamente il lucro, poiché così facendo la Chiesa viene meno alla grave proibizione - espressa già nel Decalogo e sempre seguita dagli Ebrei - di non farsi immagine di Dio.
La tesi è semplice, peccato che la storia è più semplice ancora.
Se Dio ha deciso di rivelarsi compiutamente nel Figlio Suo Unigenito creando quello “scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani” di cui parla San Paolo, e se ha deciso di mostrarsi, di farsi toccare, guardare e baciare come raccontano tutti i Vangeli e sintetizza San Giovanni nel prologo del suo Vangelo, cosa c’è di strano nel desiderio di generazioni e generazioni di cristiani, spesso di martiri per Lui, di raccogliere in immagini la Sua decisione di mostrarsi? Non è un problema di “coerenza” di Dio (4) che avendo vietato le immagini nell’Antico Testamento non può ammetterle neppure dopo Cristo, ma un problema più semplice: un fatto reale, un uomo, compie e sintetizza in Sé tutte le scritture. Lui è lo scopo della vita e vedere il Suo volto, amare la Sua Persona, è il fine della vita.
Non si può certo dimenticare che la questione delle immagini ha spaccato la cristianità nel primo millennio. Eppure la Chiesa (a quel tempo unita) ha saputo distinguere tra l’immagine e il culto verso Colui che essa rappresenta, contro uno spiritualismo che poco è vicino alla “carne” in cui Dio stesso si è rivelato.
Per l’oriente è il nascere e lo svilupparsi dell’ICONA, finestra privilegiata perché tutto sia ricondotto a Dio. Accendere la candela di fronte ad essa, meditare - nel percorso suggerito dalle sue linee e colori - la gloria di Dio Invisibile eppure mostrata proprio nella Santa Umanità di Gesù Cristo, è guida all’evitare quell’idolatria dell’uomo e delle sue capacità che è il vero scopo della proibizione Mosaica di farsi immagini. No all’idolatria, non “no” al desiderio totale (e dunque anche fisico) di fissare lo sguardo e la vita su di Lui per non correre il rischio di rivolgersi alla creatura dimenticando il Creatore.
La reliquia nasce nel momento in cui, con la Conversione di Costantino, la libertà dei cristiani diviene pubblica: si può parlare, predicare, annunciare la Salvezza compiuta in Cristo. Gesù non è presentato come una divinità al pari di tante altre, ma come un fatto nella storia. È verificabile la sua esistenza e dunque credibile la sua pretesa di essere vero uomo e vero Dio. Non si possono trovare tracce delle altre divinità perché sfuggono alla legge storica del fatto, concreto e verificabile. La verifica della sua esistenza è inizio della più radicale verifica della sua pretesa. Non è un sogno, una fiaba, un’idea, un messaggio... ma un fatto.
Così la Regina Elena (lei poteva, non uno qualunque), inizia a cercare, a scavare e trovare.
Andrebbe riletta molto bene questa pagina di storia troppe volte ridotta a leggenda, ma non è lo scopo del presente lavoro (5).
Ciò non esclude il rischio di una esagerazione, di errore, di meschinità. La lotta iconoclasta e la grande “invasione” di reliquie che colpisce l’occidente dopo la caduta di Costantinopoli ne sono una indubitabile prova.
Riportiamo su tutto ciò alcune pagine della studiosa Régine Pernoud (6):
“Se, con un lodevole desiderio di purezza, risaliamo alla Chiesa più antica, che cosa vediamo? Già nel II secolo i corpi dei martiri, coloro che hanno affermato la loro fede a prezzo della vita, sono oggetto di una venerazione particolare, e le autorità ufficiali ne sono consapevoli al punto che nell’anno 155, rifiutano ai cristiani di Smirne il corpo di san Policarpo. Da questa data si celebra l’inizio della vita eterna del santo vescovo (che era stato discepolo di san Giovanni Evangelista, come sappiamo), ossia la sua morte. Non perché, come scrive un autore, ormai Policarpo fosse considerato come una specie di «divinità inferiore», e il suo corpo come un «talismano prezioso» ma perché lui e i suoi simili avevano realizzato perfettamente l’osservazione evangelica: «Nessuno può avere amore più grande che di dare la vita per i suoi amici», e perché il loro martirio aveva fatto di essi, per sempre, un’imitazione di Gesù Cristo. Così san Cipriano raccomanda al clero e ai fedeli di segnare con precisione la data della morte dei martiri - lui che un giorno sarebbe stato portato e sotterrato nel cimitero di Cartagine da quello stesso clero che aveva così istruito. Basterà dire che il culto delle reliquie è legato intrinsecamente alla vita stessa della Chiesa, al suo sviluppo, alla diffusione del Vangelo, sempre e ovunque. Ed è stato così attraverso i tempi, fino a quei martiri vicinissimi a noi, quelli dell’Uganda, morti fra il 1885 e il 1887. E come si celebrava la messa sulla tomba dei martiri nelle catacombe, così nel nostro secolo XX dentro ogni altare su cui oggi si celebra la messa sono chiuse e sigillate reliquie.
Ma è incontestabile che nel frattempo le reliquie sono state soggette a una certa inflazione: tutto ciò a cui si tiene, tutto quello che si ritiene abbia un prezzo, foss’anche da un punto di vista strettamente spirituale, è così esposto ai misfatti del commercio, dell’incanto e dell’inflazione. Persino le indulgenze!
Inutile insistere sui capelli di Cristo, sui denti di san Giovanni Battista, sulle gocce di latte della Vergine che hanno alimentato di volta in volta un traffico lucroso e una letteratura che non fu meno proficua in età recente, poiché era, per gli «storici del Medioevo» del XIX secolo, una fonte facile e abbondante di spiritosaggini che permettevano di stigmatizzare l’«ingenuità» dell’epoca e la buia ignoranza da cui era avvolta. Quello che si conosce meno, perché è stato citato molto meno spesso, è che in buona parte questi esempi del commercio delle reliquie - non necessariamente ingenuo, ma sempre fruttuoso - sono tratti da un’opera di Gilberto di Nogent (morto nel 1124) che s’intitola Pignora Sanctorum (Le reliquie dei santi) e che biasima questa frenesia di comprare o vendere reliquie, accumulando gli esempi più ridicoli per mostrare chiaramente la stoltezza di tale commercio e soprattutto l’errore che sarebbe la confusione delle reliquie venerabili dei santi con qualsiasi talismano che guarirebbe come per magia. È una tentazione inerente alla natura umana questa deviazione del sentimento religioso che non oseremmo dire sia scomparsa ai nostri giorni - ciò non significa che siano scomparse la preghiera e la venerazione delle reliquie; e, aggiungeremmo, per fortuna!
D’altronde Gilberto di Nogent non è il solo testimone di questa autocritica fatta in nome della ragione, del buon senso, e, più ancora, del sentimento della fede, che invita a superare sempre le apparenze sensibili, ma non rifiuta in nessun caso (anzi!) il ricorso ai santi, i quali hanno saputo superare le apparenze sensibili persino quando chiedevano l’intercessione di altri santi.
Sempre nel XII secolo, persino prima di Gilberto di Nogent, un allegro chierico di Toledo, Garcias, aveva composto verso l’anno 1100 la Storia faceta e parodistica dei santi Albino e Rufino, delle loro reliquie e del potere che esse avevano di aprire tutte le porte. Sant’Albino è l’argento (albus, bianco), san Rufino è l’oro (rufus, fulvo). «O quanto sono preziosi i martiri Rufino e Albino! O quanto devono essere acclamati, elogiati coloro che, per sempre giustificati dei loro peccati, possiedono le loro reliquie! Per quanto terrestri, sono da esse preparati per il cielo; per quanto restino empi, grazie a esse sono trasformati in esseri innocenti!...». I santi Albino e Rufino, il loro martirio e le loro reliquie bastano a convincerci del fatto che l’autocritica non è mai mancata, e nei termini più feroci, per ridare una visione più giusta delle cose a coloro che erano ingannati dalla passione delle reliquie o fuorviati dal loro commercio. E quasi duecento anni dopo farà loro eco lo spirito di Rutebeuf, che prova come durante i secoli feudali non si sia mai estinta quella vena parodistica che, condannando gli eccessi, rivela l’equilibrio e la salute generale.
E non si può più parlare di «ingenuità», quando si considera la straordinaria bellezza dei reliquiari nati dalla venerazione che circonda le reliquie; basterà ricordare le mirabili teche decorate di smalti incisi, in genere su rame, per esempio quella che conserva il tesoro della basilica di Saint-Sernin a Tolosa, d’altronde di un tipo molto diffuso, con la sua forma di casetta col tetto a quattro spioventi, con lo smalto dipinto mirabilmente di azzurro, verde, bianco, rosso, l’arte consumata con cui si svolge, sulle pareti e sui lati del tetto, la storia della scoperta della vera Croce: sant’Elena, madre di Costantino, giunta a Gerusalemme, chiede a un abitante del luogo, Giuda, di scavare il suolo nel luogo che secondo una tradizione tenace è quello dove fu nascosta la Croce del Golgota. Si scopre effettivamente quello che è chiamato «il Santo Legno», e un altro pannello mostra un pellegrino di Tolosa, non altrimenti conosciuto, ma che l’iscrizione chiama Raimondo Botardel, mentre riceve dalle mani dell’abate Giovanni, di Giosafat, un frammento della Croce, che porta con sé, riattraversando il mare, per andare a offrirlo all’abate di Saint-Sernin, Ponzio di Montpezat, che è menzionato nel cartulario dell’abbazia, che governa dal 1176 al 1198. La scena della teca è dunque datata con precisione. La reliquia è così identificata nella maniera più soddisfacente, sia per lo storico che per l’amatore d’arte.
Si possono citare numerosi reliquiari dello stesso genere - quello che divenne una specialità della città di Limoges che racchiudevano reliquie spesso databili da un punto di vista storico; così si conservano non meno di quarantacinque casse di modello analogo per le reliquie di Tommaso Becket, l’arcivescovo di Canterbury ucciso nella sua cattedrale il 29 dicembre 1170 e canonizzato tre anni dopo: si trovano in parecchie chiese d’Inghilterra ma anche a Utrecht, a Paderborn, a San Giovanni in Laterano a Roma, e persino in Castiglia o in Svezia. Oggi il tesoro di Sens ne conserva un esemplare molto bello.
Alcuni anni dopo, un episodio molto conosciuto avrebbe moltiplicato, attraverso la cristianità, casse e reliquiari di indicibile bellezza: quelli che provengono dal sacco di Costantinopoli del 1204, una pagina certamente poco gloriosa della storia delle crociate, che è stata narrata più volte e dapprima da due di coloro che vi presero parte, Goffredo di Villehardouin che fu uno dei capi della spedizione, e anche Roberto di Clary, piccolo signore unito alla fanteria; entrambi hanno descritto la meraviglia dei crociati di fronte a quella città favolosa di cui si diceva che comprendesse due terzi delle ricchezze del mondo. Una di queste ricchezze era costituita dall’abbondanza e bellezza dei reliquiari che racchiudevano le reliquie dei Luoghi Santi a cui la città era vicina, e che aveva tradizionalmente la missione di difendere e tutelare. «Il bottino fu così grande che nessuno ve ne potrebbe dire l’esatta misura: oro e argento, e vasellame, e pietre preziose e raso, e vesti di seta, e mantelli di vaio, di petit-gris e di ermellino, e tutti gli oggetti di pregio che si trovarono mai sulla terra...». Oggi si prova un certo imbarazzo, leggendo citazioni del genere; e dire che coloro che si indignano per il sacco di Costantinopoli da parte dei crociati non sempre sono esattamente informati sulle peripezie del secondo assedio che portò a questo saccheggio. Infatti era stato preceduto da un primo assedio condotto per richiesta dell’ex imperatore detronizzato, o piuttosto di suo figlio, il giovane Alessio, di cui era ancora vivo il padre Isacco Angelo, che l’usurpatore aveva fatto accecare. Era per lui che la città del Bosforo era stata presa d’assalto una prima volta, il 17 luglio 1203. E fu solo nell’anno successivo che i crociati, dopo avere vanamente atteso che Alessio e suo padre mantenessero gli impegni presi con loro, e anche esasperati di vedersi trattare con disprezzo, si rivoltarono proprio contro colui che li aveva indotti ad assaltare le mura di Costantinopoli; le varcarono nuovamente (da quasi un anno l’esercito era acquartierato nei sobborghi di Galata, in attesa delle buone grazie dell’imperatore bizantino), e decisero di installarsi al posto di Alessio. Non tardarono a farsi scomunicare dal papa, quando fu conosciuto questo colpo di forza ma, nel frattempo, i palazzi e le chiese erano stati svuotati dei loro tesori. In seguito sarebbero stati ritrovati, specialmente nella basilica di San Marco a Venezia, ma anche in tanti santuari della Champagne, del Belgio o della Piccardia; così oggi è stato identificato, nella chiesa di San Giorgio di Limburgo sulla Lahn, in Germania, il mirabile quadro, o icona, proveniente da Costantinopoli e datato al secolo X, una specie di reliquiario collettivo che tra l’altro contiene un frammento della vera Croce: su un’anima di legno le preziose piastre d’oro lavorato in cui sono incastonate pietre e smalti a cellette mostrano al centro la divinità, Cristo in maestà, circondato dagli apostoli e dai santi le cui reliquie sono conservate. Borchie di perle e di smalti incorniciati da rotelle di smalto inciso, fini bande cesellate, iscrizioni in rilievo circondano e inquadrano l’insieme, portato da Costantinopoli dal cavaliere Enrico di Ullmen, che lo donò a un convento agostiniano di cui sua sorella era la badessa, a Stuben sulla Mosa. Certe reliquie particolarmente preziose, quelle della vera Croce di cui gli imperatori di Costantinopoli possedevano la maggior parte, furono rimontate e presentate in nuovi reliquiari. In particolare si conosce quello che Enrico di Fiandra fece eseguire da un orafo chiamato Gerardo, nel 1206, e che si trova sempre nel tesoro di San Marco di Venezia: è una specie di ostensorio fatto di lame di vetro incastonate in delicati fogliami di bronzo dorato tra cui è conservato il Santo Legno, in una montatura d’oro massiccio, col Cristo in croce, la colomba dello Spirito Santo e i due personaggi del Calvario, la Vergine e san Giovanni; il tutto montato su un tripode decorato di zampe di leone o di grifone.
È inutile intraprendere la descrizione dei reliquiari che magnifiche opere di specialisti hanno elencato, e che fanno parte del patrimonio più prezioso dell’Europa e del Vicino Oriente; ma possiamo soffermarci un istante sulle forme d’arte suscitate dalle reliquie, che talvolta sono configurate secondo le ossa che contengono: testa di san Martino di Soudeilles, che rappresenta appunto una testa, o di san Calminio, reliquiario-braccio come quello di san Pantaleone (anch’esso nel tesoro di San Marco di Venezia); invece, talvolta - molto più semplicemente, ma con una nobiltà che s’impone - sono «reliquiari a vista»; per esempio i due frammenti della Corona di Spine che san Luigi donò rispettivamente all’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune, nel Vallese, e al tesoro della basilica di San Francesco d’Assisi; consistono di un prezioso cristallo di rocca intagliato in modo da formare una specie di lente che permette di vedere il frammento di spina inserito all’interno, il tutto sostenuto da piedi d’argento di una meravigliosa eleganza, al centro il classico nodo che assolve a un ruolo funzionale, permettendo di tenere l’oggetto, ma al tempo stesso offre l’occasione di un ornamento supplementare, in un caso a coste, nell’altro a borchie.
E non possiamo lasciare il capitolo delle reliquie e dei reliquiari senza ricordare il più bel reliquiario che sia mai stato concepito ed eseguito: la Sainte-Chapelle. Esiste ancora l’atto con cui, il 4 settembre 1238, l’imperatore latino di Costantinopoli Baldovino II impegnava la reliquia della Corona di Spine, portata da Gerusalemme a Costantinopoli, in cambio del denaro che era disposto a prestargli un mercante veneziano, Nicolò Quirino. San Luigi apprese il singolare mercato e decise di rimborsare Nicolò Quirino, entrando automaticamente in possesso della sacra reliquia. Inviò due frati predicatori, Giacomo e Andrea di Longjumeau, a Costantinopoli e poi a Venezia per accompagnarlo, e andò personalmente incontro alla reliquia quando seppe che, attraverso l’Italia settentrionale e la Germania, i frati erano arrivati a Troyes. Sbarcato a Villeneuve-l’Archeveque, la scortò a piedi nudi fino a Sens assieme al fratello Roberto d’Artois. Entrambi portarono allora la cassa fino alla cattedrale, dove la folla poté recarsi a venerarla. In seguito, dopo avere navigato sulla Yonne e la Senna (allora erano più abituali i trasporti via acqua), nell’agosto del 1239 il re sbarcò a Parigi, e, sempre a piedi nudi, la portò prima all’abbazia di SaintAntoine e poi fino al palazzo al centro della città. Subito cominciò la costruzione dell’immensa cassa di vetro destinata a ospitare la reliquia. L’edificio fu terminato e consacrato il 26 aprile 1248, e si possiede l’atto di fondazione del corpo di cappellani e chierici che le fu assegnato nel gennaio 1246. Non è irrilevante il fatto che san Luigi si fosse fatto d’altronde rilasciare dall’imperatore Baldovino II, nel 1247, un atto che autenticava la reliquia della Corona di Spine, insieme ad alcune altre da lui consegnate al re di Francia durante un soggiorno a Saint-Germain en Laye.
Si può così notare da un lato la preoccupazione dell’esattezza della provenienza e autenticità delle reliquie acquisite e, d’altro lato, la preoccupazione di esporle con il massimo splendore possibile: la Sainte-Chapelle offre una specie di sintesi delle possibilità architettoniche dell’epoca; è un muro trasparente, una parete di vetro sostenuta da file di archi di pietra alleggerite al massimo; è anche la testimonianza del gusto personale del re; infatti lo storico d’arte americano Robert Branner ha potuto parlare di uno «stile di corte» proprio del re, accostando le arcatelle insieme potenti e fragili della Sainte-Chapelle alle mirabili pagine del salterio di san Luigi, anch’esse miniate secondo il principio delle duplici arcatelle. Si tratta dunque dell’espressione di una persona e di un’epoca al tempo stesso.
Bisogna aggiungere un’altra caratteristica, anch’essa propria del santo sovrano; abbiamo menzionato i due reliquiari a vista di Agaune e di Assisi; occorre aggiungere il frammento della Santa Spina che lo stesso san Luigi donò al vescovo del Puy, Bernardo di Montaigu, e che oggi si trova nella chiesa di Notre-Dame a Saint-Etienne. Un’altra è stata donata alla cattedrale di Sens ed è conservata nel tesoro di questa città: ciò testimonia di una generosità davvero regale, che ha promosso la creazione di capolavori ovunque. Si dovrebbero ancora menzionare gli altri reliquiari della stessa epoca, spesso a forma di corona, come quello offerto da san Luigi ai frati predicatori di Liegi, o che imitano la forma tradizionale di una chiesa, come la celebre cassa di Saint-Taurin d’Evreux. Nel complesso una serie di capolavori che vanno dall’oreficeria e dagli smalti all’architettura e alle vetrate, e che fanno apparire del tutto inopportuno il termine «oscurantismo».
Per i nostri contemporanei, il nome Beaubourg evoca il centro Pompidou, dunque i movimenti artistici attuali, e insieme la gioventù che li ha adottati, con tentativi più o meno riusciti di teatro, di mimica, di minicolloqui e concerti per strada - tutto ciò che può attirare la folla del nostro tempo, e in primo luogo quella sensibile alla vita culturale.
Verso gli anni Sessanta, e ancora molto dopo, la rue Beaubourg non era che una serie abbastanza sinistra di immobili senza interesse, tenuti male e abitati non molto meglio, dove andavo ogni giorno a prendere l’autobus che, dall’Archivio Nazionale, mi riportava a casa. La fermata era davanti alla vetrina di una drogheria all’ingrosso che, in mancanza di meglio, guardavo distrattamente quando l’autobus si faceva aspettare. In un certo periodo conteneva, in un angolo, un grosso mucchio di sacchettini bianchi ognuno dei quali aveva una specie di macchia nera che mi incuriosiva. Un giorno volli leggere l’etichetta situata su ogni sacchetto, vicino alla macchia nera. Diceva: «Tessuto garantito proveniente dalla giacca di Johnny Halliday».
Avevo appena letto un libro che trattava con grande disprezzo del culto delle reliquie, espressione dell’ignoranza e ingenuità del «Medioevo»...
Alcuni - ma sarebbe una prova di diffidenza - potrebbero anche fare dei paragoni tra le reliquie e quelle vestigia neolitiche o paleolitiche che si ammucchiano nei nostri musei. Noi ci guarderemmo dal farlo: ognuna di esse rappresenta una tappa preziosa nel progresso della conoscenza scientifica dell’umanità. Ma, tutto sommato, conservare ciò che proviene da un santo personaggio per cui si prova venerazione è espressione di un sentimento parallelo, sebbene di livello diverso. E non hanno forse fatto progredire la nostra conoscenza dell’uomo coloro che hanno elevato l’umanità col loro senso di giustizia, la loro bontà, il loro gusto dell’infinito?”
Potremmo sinteticamente affermare che mentre in Oriente l’Icona domina, in Occidente si afferma maggiormente la reliquia.
Il caso della Sindone di Torino mette insieme questi due grandi filoni: è reliquia, in quanto viene ipotizzato come il lenzuolo funerario di Gesù, ma mostra una immagine visibile del corpo che avrebbe contenuto. È vera icona di Gesù, non dipinta da mano d’uomo perché impronta reale del Suo Corpo deposto, dunque l’unica reliquia di Lui.
Questa pretesa (comune a tutte le numerose “sindoni” apparse in Oriente ed Occidente) trova accaniti difensori e accesi nemici.
Proviamo ad osservare da vicino il reperto.