L’immagine
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Abbiamo detto che il lino riporta in modo assai tenue l’immagine di un uomo. Non è, a differenza delle macchie, una impronta: interessa solo le fibrille più superficiali di ogni singolo filo di lino che la compone; non è un disegno né potrebbe esserlo perché non c’è traccia - sempre sulle fibrille - di una direzione che inevitabilmente un pennello produce. Inoltre l’immagine “scompare” se ci si avvicina troppo. Su questi dati non c’è discussione.
Riportiamo una bellissima pagina sulla particolarità di questa immagine.
“Per molto tempo, si era pensato che fosse un miracolo.
Chiunque voglia osservare la mirabile immagine nei dettagli e, quindi, si avvicini, rimane deluso sempre più, via via che la distanza si riduce.
Davanti agli occhi, l’Immagine sembra impallidire ad ogni passo, come riassorbita dalla tela, finché, a distanza di un metro circa, non se ne percepisce quasi nulla, se non informi sfumature, o nulla del tutto. Ancora più da vicino, diventa quasi impossibile distinguere tra le aree dove appare l’Immagine e quelle dove non si vede niente.
Restano solo, evidenti, illogiche e spettrali, le lacerazioni delle ferite, le colature di sangue. Questo disturbante fenomeno si produce sia osservando l’originale, che studiando le sue fotografie in scala.
Un fenomeno simile non avviene per nessuna pittura: avvicinandosi e fissando un dettaglio, si vedono spesso strutture molto diverse dall’effetto d’insieme (soprattutto in opere di alcune scuole: gli impressionisti, i divisionisti, i macchiaioli). Ma qualcosa si vede sempre. Sulla Sindone, no: non si vede niente.
Si doveva attendere il 1978 per trovare la chiave di lettura di questo strano avvenimento. Sarebbe stata infatti l’esplorazione di alcuni fisici del Los Alamos National Laboratory a notare che esso non era prodotto di una suggestione collettiva o individuale, ma era viceversa misurabile e definibile per mezzo delle leggi ottiche. In un certo modo, la scienza si trovava a rendere giustizia a quello che era stato giudicato fino allora un fenomeno di superstizione medioevale.
Ora, il nostro occhio è costruito in modo che, al fine di percepire meglio gli oggetti, ne vede più netti i contrasti dei bordi. Esso «esalta» cioè i confini tra un oggetto e lo spazio circostante. Ma, se l’occhio osserva immagini molto pallide e dai confini indefiniti, incominciano le difficoltà. E lo sperimentano i radiologi, quando esaminano lastre con immagini tenuissime. (Questo fenomeno si definisce come: «Inibizione neurale laterale».Per i suoi effetti sulla visione sindonica, V.D.H. Janney (Los Alamos National Laboratory in L.A. SCHWALBE - R.N. ROGERS, Physics and Chemistry of the Shroud of Turin, Analytica Chimica Acta, vol. 135, 1982).
Ora l’Immagine sindonica è debole e pallida, e non ha un contorno, un tratto disegnato che ne delinei i bordi. Quindi, alla distanza di alcuni metri si «esaltano» le lievi differenze di colore tra l’immagine e il lino circostante, e noi stabiliamo dove finisce l’immagine e quindi la sua sagoma. Ma, via via che ci avviciniamo, l’immagine dilaga su tutta la nostra retina: e le differenze scompaiono e non vediamo più niente.
E così, dopo secoli, si poté sciogliere l’enigma di questo sconcertante fenomeno e stabilire che la sua origine non era mistica, ma ottica.
Nello stesso tempo, però, - e di conseguenza - si compiva un’altra scoperta, che doveva influire molto circa i futuri studi sulla Sindone: se, a distanza di un metro, non si vede nulla dell’Immagine, per chi avesse voluto dipingerla così, si sarebbero affacciate difficoltà insormontabili.
L’artista, infatti, avrebbe dovuto avvicinarsi alla tela per eseguire quel preciso e lievissimo lavoro; ma, per controllare il progresso dell’opera, avrebbe dovuto arretrare a una distanza minima di quattro, cinque metri, e questo continuativamente, durante tutta l’esecuzione, ad ogni pennellata. Si sarebbe dato cioè il caso singolare di un pittore o disegnatore che non vedeva il suo lavoro mentre lo eseguiva (19).”
Più difficile è determinare la natura di questa sorta di maggiore ingiallimento di alcune fibrille rispetto alle altre: si parla di una sorta di invecchiamento precoce, di ossidazione, disidratazione... che rende l’immagine superficialissima, inattaccabile da qualunque solvente conosciuto, termicamente stabile etc.
Riascoltiamo la Siliato.
“L’impronta del cadavere - va sottolineata la distinzione fondamentale tra i due tipi di segni: 1) l’impronta del viso e del corpo; 2) le macchie di ferite e di sangue - se veniva illuminata da una luce bianca, appariva essere di un colore giallastro, simile alla paglia. Da sempre, il colore dell’impronta era stato definito come uno sfumato monocromatico color seppia; ma ciò si dimostrò non vero, anche se il giudizio sul colore di un oggetto così particolare poteva essere influenzato dall’illuminazione e dalla distanza di chi guardava. (Se il colore dell’immagine veniva eccitato da una sorgente UV 390-420, esso appariva di un grigio neutro: era cioè, totalmente assorbente. V. J. HELLER e altri A Comprehensive Examination of the various stains and Images on the Shroud of Turin, in Advances in Archeological Chemistry, 1983).
Via via che l’esplorazione procedeva - dall’esame macroscopico, (con ingrandimenti fino a cinquanta volte) inabissandosi poi nel mondo frammentato e indescrivibile di oltre mille ingrandimenti, - la ricerca diventava più affascinante.
Per la prima volta si poteva penetrare nel segreto strutturale di quelle ombre giallastre che, viste a occhio nudo tutte insieme e da lontano, apparivano come una forma umana. Al microscopio si vide che quell’ombra giallastra non aveva invaso interamente le fibre del lino. Su ogni fibra, aveva toccato soltanto le fibrille più superficiali. Se, ingrandito al microscopio, un filo di lino si poteva paragonare a una folta treccia di capelli, il colore giallastro dell’impronta aveva toccato soltanto una decina dei capelli più esterni della treccia. Perfino nelle parti che, ad occhio nudo, appaiono più scure, come le sopracciglia o le dita, l’impronta non penetrava.
E si vide una cosa singolarissima: la maggiore intensità di certi punti (il naso, le mani, le ginocchia) non era dovuta a fibrille più scurite, ma solo al fatto che, in quei punti, un numero maggiore, una massa più fitta di fibrille era stata toccata da quel colore giallastro; e così, nella somma, esso sembrava più scuro. E infatti l’impronta delle guance, delle occhiaie, dei lati delle dita - che ad occhio nudo appare così pallida -, aveva toccato solo pochissime fibrille, in mezzo a tante altre che non lo erano state.
In nessun punto, l’impronta era penetrata negli avvallamenti della tessitura: non appena il filo tendeva a infossarsi per seguire il corso della tessitura, essa scompariva. Per tutta l’estensione degli oltre quattro metri del telo, essa era tutta e ovunque egualmente ed estremamente superficiale. La sua regolarità, nella sua estrema lievità, appariva impossibile ad ottenersi, oltre tutto su una superficie così vasta e fluttuante, con un qualsiasi mezzo d’applicazione o di trasporto di colore.
La pallida lievissima colorazione giallastra non dilagava mai dalla fibrilla interessata a quelle vicine, non vi era una sola sbavatura, non vi era diffusione per capillarità. Quindi non potevano essere stati liquidi colorati a formare l’impronta. La superficialità e la non migrazione dell’Impronta escludeva qualsiasi meccanismo che avesse portato alla migrazione di liquidi per capillarità: escludeva cioè l’applicazione di pitture o coloranti. Ciò era anche più evidente se si confrontava l’Impronta con le gore d’acqua lasciate dallo spegnimento dell’incendio del 1532: quell’acqua, dove era caduta, aveva pervaso il tessuto fino al rovescio e si era allargata capillarmente, come appunto fa un liquido o un fluido.
Esplorando con un ago da dissezione le fibrille dove appariva l’Impronta, color paglia, del corpo, si trovava che non erano cementate o incollate fra loro da niente: non vi era nulla cioè che sembrasse in qualche modo «spalmato» sul tessuto per formare l’Immagine. Ingrandendole fino a mille ingrandimenti, poi, non si trovò nessuna particella di sostanze coloranti. (...)
La massa dei reperti, catturati dai nastri adesivi, era di pochi nanogrammi (bilionesimi di grammo) per i più piccoli; ed arrivava ad alcuni microgrammi (millesimi di milligrammo) per i più grandi e fortunati frammenti. La maggior parte delle particelle aveva dimensioni inferiori al micron.
In pratica, nulla di ciò che sarebbe stato esaminato, e soggetto a tests chimici, con contatto, aggiunta, immersione in bagni di altre sostanze, reagenti, specialità biochimiche, era visibile ad occhio nudo.
Tutta la ricerca, quindi, si svolse a questi livelli infinitesimali. Vi era inoltre il problema di lavorare su campioni che non avrebbero potuto essere sostituiti o integrati in nessun modo. La difficoltà, che ne sorgeva, fu per Heller l’occasione di mettere a punto una nuova tecnica specifica per compiere analisi su quantità così infinitesimali. (J.H. HELLER - A.D. ADLER, A Chemical Investigation on the Shroud of Turin, «Applied Optics» 16, 1980; una lettura di straordinario interesse per chiunque voglia seguire un’indagine chimica ad alto livello).
Con una serie di tests microchimici si cercò la presenza di coloranti - minerali o animali -, e di colle e leganti per fondi di pittura, quali si usavano nel Medioevo. I tests effettuati avrebbero denunciato la presenza di tali sostanze fino a quantità inferiori al milionesimo di grammo.
In un punto marginale del telo, dove non vi è impronta, fu trovato e analizzato al microscopio un frammento di circa 50 micron per centocinquanta. Fratturato ed esaminato, si scoprì che era un pigmento colorico, l’unico trovato sul lino sindonico, un pigmento di rosso vermiglione. Era chiaramente un fatto accidentale: era un inquinamento dovuto a uno dei tanti pittori che copiarono l’immagine sindonica. Solo che fosse, fu trovato; e, con i mezzi usati, ne sarebbero stati trovati altri, se vi fossero stati.
Vicino a una bruciatura, fu notato un infinitesimale frammento nerastro, grande pochi micron. Si scoprì che era argento; e si ricostruì che proveniva dalla cassa che aveva racchiuso il lino durante l’incendio del 1532. Mentre l’angolo della cassa aveva incominciato a fondere, il frammento era caduto sul tessuto.
E fu così ritrovato, dopo quattrocentocinquanta anni. E si scoprì che non era argento ad elevato grado di purezza; come accadeva per gli argenti antichi, vi furono trovate consistenti percentuali di altri metalli meno nobili.
Dopo di ciò nient’altro. Sia nell’antichità classica che nel Medioevo, in Europa, in Nord Africa, in Medio Oriente, i pigmenti per pittura, come il rosso veneziano o l’ocra, erano tutti, sempre, contaminati con una certa quantità di manganese, nickel, cadmio, e altri minerali che i tests impiegati avrebbero subito scoperto. Ma non se ne trovarono. Sull’Immagine non esisteva traccia di coloranti artificiali, di nessun genere. Furono esaminati, per confronto, una quantità di pigmenti tratti da pitture medioevali. I tests usati, sensibilissimi, li rilevarono, scoprendo subito una notevole quantità d’impurità metalliche.
Ma poiché qualsiasi macchia e coloritura - sia naturale che sintetica - può venir estratta da un solvente adatto (e venir così riconosciuta nella sua origine) quale che fosse o fossero la o le sostanze con cui era stata formata l’impronta, il solvente adatto sarebbe stato trovato. Furono sperimentati metanolo, etanolo, benzene, toluene, acetone, tetrachloride di carbonio, cloroformio, piridina, acetato di etile, dimetilformamide, cicloesano, etere, morfolina, diossano. Neppure l’acido solforico concentrato poté estrarre colore.
Tuttavia, quella fase di ricerca, invece di sciogliere l’enigma, ne costruì uno nuovo: perché il colore giallastro che forma l’impronta del corpo non poté essere estratto da nessun solvente. Esso era cioè un «non colore».
I fili di lino ingialliti lasciavano sui nastri adesivi una quantità notevolmente maggiore, in peluzzi e residui polverizzati, di quella che non lasciassero i fili senza impronta. Quei fili sembravano «indeboliti» nella loro struttura da un qualche processo chimico che li avesse aggrediti.
Le fibre di lino sono costituite da cellule della pianta ben collegate l’una con l’altra. Al microscopio, somigliano a canne di bambù. Le giunture, o menischi, posseggono una struttura e una circonferenza ben definite.
Ma, sotto il microscopio a contrasto di fase, le fibrille che portavano l’Impronta sembravano, lievemente ma nettamente, erose sulla superficie. Il loro color paglia era dovuto soltanto a questo. Esattamente come ingiallisce il lino con il passar degli anni, esse erano ingiallite più delle fibrille vicine, prive dell’Impronta; e si erano deidratate e ossidate più rapidamente, con una ossidazione acida; erano diventate più vecchie. Infatti, quando furono adoperati dei potenti sbiancanti, le fibrille si scolorirono. Il Superoxil Neutral non le aveva sbiancate nemmeno sotto l’effetto dei raggi UV; ma l’idrazina le sbiancò, e così la diimide, riduttore potentissimo, e un altro potente agente ossidante, il perossido alcalino.
Per questa ragione soltanto era possibile vedervi la forma del viso e del corpo. La differenza di colorazione tra i diversi punti non dipendeva da una variazione nell’intensità della ingiallitura, ma dalla quantità di fibrille che erano venute a contatto con la pelle e quindi si erano ingiallite.
La celebre, drammatica Impronta sindonica era quindi dovuta a un meccanismo singolare d’invecchiamento di quei precisi punti del tessuto, era costituita da una «decomposizione accelerata» del lino. In definitiva, era fatta di niente (20).”
Si apre a questo punto il capitolo delle ipotesi scientifiche che sono state tantissime e di generi diversissimi (21). Per questa parte rimandiamo alla lettura diretta dei molti testi in commercio.