L’Evangelista Marco tra storia e leggenda
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Incontri sul Vangelo di Marco, poiché quest'anno la liturgia domenicale ci fa leggere questo Vangelo

Dicono che sia la sua firma, pittorica, anche quella, come il suo Vangelo. Mi riferisco a quel lenzuolo che volteggia luminoso e bianco, nella notte più nera della storia: [Mentre Gesù veniva arrestato nel Getsemani] tutti, abbandonandolo, fuggirono. Un giovinetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo (Mc 14,50-52).
Questo schizzo ritrae perfettamente le caratteristiche del Vangelo di Marco: enigmatico e spoglio, essenziale come un giovinetto nudo e drammatico come una fuga; un vangelo che, sull'identità del Cristo, offre luci improvvise e silenzi oscuri, impenetrabili. Insomma un mistero e insieme una rivelazione o forse, meglio, la rivelazione di un mistero, aperta a chi nulla conosce delle antiche tradizioni ebraiche e delle sue attese messianiche.
Conosciamo Marco come il probabile proprietario di quella grande casa al piano superiore dove si verificarono gli eventi più importanti della vita di Cristo: l'ultima cena, le apparizioni del Risorto, la pentecoste. Gli scritti del nuovo testamento lo citano più volte:
Dal libro degli Atti veniamo a sapere che Marco, in realtà, si chiamava Giovanni: [Pietro] si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera (At 12,12). E che fu compagno in un viaggio missionario di Paolo e Barnaba, dai quali però poi si separò: Giunti a Salamina [Barnaba e Paolo] cominciarono ad annunziare la parola di Dio nelle sinagoghe dei Giudei, avendo con loro anche Giovanni come aiutante (At 13,5). Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme (At 13,13).
Nella lettera ai Colossesi, Paolo ci informa che Marco è cugino di Barnaba: Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni - se verrà da voi, fategli buona accoglienza - (Col 4,10). Sempre Paolo, a Filemone, in un biglietto, manda i saluti di Epafra, Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori (Fm 24).
Dall'apostolo Pietro poi sappiamo che Marco si trova a Roma con lui: Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio (1Pt 5,13).
Anche fonti extra bibliche ci confermano questo fatto: Marco fu al seguito di Pietro mettendo per iscritto almeno parte della predicazione del primo tra gli Apostoli. A testimoniarlo è uno tra i primi vescovi cristiani: Papia di Gerapoli. Nei suoi scritti egli ricorda gli insegnamenti di un tale "presbitero" di nome Giovanni: Marco, divenuto interprete di Pietro, mise per iscritto tutto ciò che si ricordava, senz'ordine però, sia le parole, sia le opere del Signore.
Tale notizia se, da un lato ci ha offerto una preziosa testimonianza del rapporto fra Marco e Pietro, dall'altra ha alimentato la convinzione che Marco fosse semplicemente il segretario di Pietro, una sorta di copista, senza molto talento né originalità.
Oggi la critica moderna gli ha ridato il posto onorevole che gli spetta. Marco è l'inventore del genere letterario del Vangelo, preceduto solo da una sorta di protoevangelo che non ci è pervenuto (1), ma che comunque Marco ha organizzato in modo del tutto autonomo. L'espressione di Papia: mise per iscritto tutto ciò che si ricordava, senz'ordine non corrisponde, infatti, a verità. Marco raccolse sì, tutto ciò che si ricordava delle parole e delle opere del Signore, ma non senz'ordine, bensì con una costruzione precisa e un'originalità propria.
Il suo Vangelo segue uno schema preciso: una introduzione e due grandi archi narrativi suddivisi, a loro volta, in tre sezioni:
Introduzione | I parte | II parte | ||||
1,1-13 | 1,14-8,26 | 8,27-16,4 | ||||
1. sezione | 2. sezione | 3. sezione | 1. sezione | 2. sezione | 3. sezione | |
(1,14-3,6) | (3,7-6,6a) | (6,6b-8,26) | (8,27-10,52) | (11-13) | (14-16) |
Colonna portante tra i due grandi archi è l'episodio di Cesarea di Filippo in cui l'apostolo Pietro riconosce la messianicità di Gesù (Mc 8,27-30).
Chi è Gesù, del resto, è la domanda fondamentale del vangelo di Marco che si apre con queste parole: Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Il titolo non pare di Marco, ma bene si sposa con l'intento dell'opera che praticamente si chiude con la confessione di fede del Centurione: veramente quest'uomo era Figlio di Dio.
«Chi è il vero discepolo» è l'altra domanda fondamentale del vangelo marciano, che viene per questo definito il vangelo dei catecumeni. Clemente Alessandrino, attorno al 200, afferma che Marco scrisse il suo vangelo a Roma per i convertiti al cristianesimo di quella città, non a caso, allora, è un romano - e un soldato romano - il perfetto credente che alla fine del vangelo riconosce l'identità di Gesù.
Marco, come abbiamo visto dai passi sopra riportati, fu legato a Barnaba non solo da vincoli di parentela, ma anche da ideali. Per un certo tempo, infatti, gli fu compagno di missione insieme con l'apostolo Paolo. Per motivi a noi ignoti Marco fu all'origine di un litigio tra Barnaba e Paolo, forse uno dei motivi fu proprio il temperamento di Marco, piuttosto timoroso e poco incline alle "fatiche" missionarie. Un tale temperamento bene si accorda con l'immagine del giovinetto in fuga con cui abbiamo aperto queste pagine. Il dissenso, comunque, si ricompose e ritroviamo Marco al seguito degli apostoli e in particolare di Pietro per il quale, grazie alla sua conoscenza del greco, funse da interprete. Secondo il doge Andrea Dandolo, nell'ampia Cronica redatta nel 1350, fu lo stesso Pietro che lo inviò ad Aquileia quale organizzatore di un clero preesistente. Qui scelse il primo vescovo di Aquileia: Ermagora (unico dato certo della tradizione). Dopo una sosta a Roma attorno al 50, Marco partì per Alessandria, divenendo il fondatore della Chiesa di quella città. (Figura 1)
Qui lo ritrae Gentile Bellini in un grande telero (2) ora nella Pinacoteca di Brera dal titolo: "Ultima predica di san Marco in Alessandria". Gentile morì, nel 1507, prima di completare il lavoro e raccomandò al fratello Giovanni - piuttosto restio a cimentarsi nella pittura di storia -, di farlo in sua vece. Giovanni si contentò di aggiungere alcuni ritratti, compreso quello dell'evangelista e di migliorare lo sfondo regalandoci un documento prezioso di quella che fu la grande bottega dei Bellini a Venezia.
In una giornata luminosissima in cui il sole inonda le mura e i minareti della città di Alessandria, campeggia la basilica di sant'Eufemia - come la chiama Ridolfi (1648) - ma che ha una evidentissima somiglianza con la Basilica di san Marco in Venezia.
Non puoi non sentirti attratto da quella folla variopinta e cosmopolita e trovarti d'improvviso lì, anche tu, ad ascoltare la predicazione di Marco, pittoresca e vivace che ti attrae a Cristo. Nulla nel dipinto accenna a Cristo che pure apre e chiude il vangelo marciano.
Nel telero di Gentile, non si accenna né alla croce né al crocifisso, nulla rimanda alla Palestina tranne, forse, l'abbigliamento dell'apostolo che però fu dipinto dal fratello. Giovanni Bellini, infatti, completando il lavoro di Gentile, ritrae l'evangelista con la mano rivolta verso il Cielo, mentre indica la meta finale per tutti; una meta vicina per lui, a giudicare dal carnefice turco con la scimitarra che, proprio accanto alla piattaforma a ponticello su cui sta l'apostolo, attende di compiere l'esecuzione. Nell'altra mano Marco tiene il rotolo del suo vangelo.
L'atmosfera del dipinto riproduce in tutto la pomposità della corte di Maometto II che Gentile Bellini aveva avuto modo di conoscere personalmente, essendo stato inviato al Sultano per compiere alcuni servigi. Narra il Ridolfi che, ammirato dalla sua bravura, Maometto II chiese a Gentile di dipingere per lui la testa di Giovanni Battista, profeta caro ai mussulmani. Quando Bellini presentò al Sultano l'opera egli, pur lodandola molto, riscontrò poca veridicità nel collo reciso dipinto dal veneziano. Chiamò allora a sé uno qualunque dei servi di corte e, immantinentemente gli recise la testa mostrando all'attonito pittore come si comportasse il collo di un condannato alla decapitazione. Da quel giorno Gentile si affrettò a terminare il suo compito presso il Sultano e, lasciata Costantinopoli, rientrò frettolosamente a Venezia. Un ricordo di quella scena compare qui nei tratti del turco con la scimitarra in mano.
Questo gesto, per quanto "limite" mette bene a fuoco perché il fratello di Gentile, Giovanni, fosse restio a cimentarsi nella pittura di storia: egli si rifiutava di dipingere ciò che non aveva visto in prima persona (3). Tant'è che per completare questa grande tela Giovanni si contentò di fare dei ritratti.
Anche l'evangelista Marco, in certo senso, completò l'opera di un testimone oculare, Pietro, arricchendola di ritratti che aiutano il catecumeno a immedesimarsi ora nell'uno ora nell'altro personaggio che s'imbatte in Gesù.
In questo ampio telero abbiamo tratteggiata tutta la vicenda di san Marco, così come la tradizione ce l'ha tramandata: nella figura dell'apostolo vediamo la sua funzione di predicatore a Roma, accanto a Pietro dove, come attesta Clemente, scrisse il suo vangelo. Nella chiesa alle sue spalle, così simile a san Marco, vediamo significata la sua missione nella Chiesa di Aquileia, che comprendeva anche il territorio di Venezia, città allora inesistente. Nei numerosi particolari esotici (tra cui una giraffa) si trova significata la sua permanenza nell'Africa settentrionale: Alessandria, l'apostolato in Egitto a Cirene, e il suo ritorno ad Alessandria dove subì il martirio.
Il suo corpo rimase in quella città fino all'828 quando, cioè, il governatore arabo di Alessandria incominciò a smantellare il santuario che custodiva il corpo del Santo per impiegare marmi e colonne nella costruzione di un palazzo a Babilonia. Fu allora che, per timore che venisse profanata la tomba, due mercanti di Venezia Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, trafugarono il corpo del santo e lo portarono in Italia nascosto dentro a ceste di lattuga e maiale, per evitare i controlli musulmani. Queste singolari vicende delle spoglie mortali di Marco sono narrate in alcune splendide tele del Tintoretto.
Ritorniamo però al nostro telero, dove il tumulto che condusse Marco al martirio pare lontano e, benché la scena sia ben orchestrata e teatrale, tutto si svolge nella più limpida quotidianità.
Come nel Vangelo la predicazione marciana invita a trovare Cristo per mezzo della fede e dentro le pieghe del quotidiano. Sono i demoni e gli spiriti, sono gli elementi del cosmo, il pane che si moltiplica, il vento che si placa, il mare che si acquieta a "conoscere" il Figlio di Dio, l'uomo no; per l'uomo c'è il silenzio di una fede quotidiana che segue i passi del Maestro e che solo nel momento supremo della croce potrà capire. Di questa fede è pieno lo sguardo degli uditori: le donne mussulmane dagli occhi rapiti, i greci, persino il turco che ha già pronto il patibolo per il martirio dell'evangelista, pare attratto dall'annuncio della buona novella. È proprio la presenza di costui, del resto, ad autenticare le parole di Marco che, nel momento supremo del martirio sigillò la sua predicazione con la vita.
La comunità a cui Marco scrive è importante. Nella folla del Bellini è rappresentata quella folla di pagani a cui sembra destinato il vangelo di Marco. Gli studiosi però ipotizzano comunità diverse: alcuni infatti pensano a qualche città ellenistica della Galilea o della Decapoli, altri alla Siria, altri ancora, e sono forse quelli che hanno dalla loro maggiori indizi, alla comunità cristiana di Roma.
Note
1. Gli studiosi l'hanno denominato fonte Q, da Quelle che, in tedesco, significa appunto fonte. Qualcuno ipotizza che tale materiale sia giunto a noi - sia pure con manipolazioni non canoniche - attraverso il vangelo apocrifo di Tommaso.
2. Gentile Bellini (con successive integrazioni di Giovanni) Ultima predica di san Marco ad Alessandria (1504-1507) tela, 347 x770 cm Milano, Pinacoteca di Brera.
3. Nel 1497, il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, richiese a Giovanni di raffigurare, in un quadro di sua proprietà, una veduta di Parigi. Il pittore appose un rifiuto motivandolo col fatto di non essere mai stato a Parigi.