Ti piacerebbe essere nato così? Risposta di D. Gabriele
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Ho letto, pubblicato e apprezzato l'articolo di suor Gloria. Anche perché nato da una sofferta partecipazione al dolore di tante persone di fronte a un desiderio a cui non riuscivano a dare risposta. Ma consapevole che la risposta a una domanda, per essere giusta, deve tenere conto di tutti i fattori in gioco, quindi anche della vita di tanti esseri umani: non può mai essere barattata con nulla. È sempre sacra.
Non un giudizio o una condanna, nella finzione della lettera, né nei confronti dei genitori, né, tanto meno, dei figli nati in vitro, ma una richiesta di riflessione, l'invito a un dialogo che abbia a cuore il bene dell'uomo, di ogni uomo, e la verità dell'amore.
Ci sono state tante risposte, tante lettere, a cui è stata data da suor Gloria puntuale e cordiale risposta. Qualcuno ha così potuto instaurare un dialogo, sereno, serrato, umano. Era quello che la pubblicazione della lettera intendeva suscitare.
Ma purtroppo non tutti coloro che hanno scritto hanno avuto lo stesso atteggiamento, e hanno usato parole adatte. E capisco la ragione, certo: quando si tratta di qualcosa che in qualche modo rinnovi l'esperienza di fatica e di dolore, ci si può far prendere la mano. Ma se - come in molti hanno scritto - è l'amore che li ha mossi, mi stupisce che l'amore generi espressioni di odio e di disprezzo nei confronti delle persone a cui ci si rivolge. Non riporto - per discrezione - tali frasi. Vorrei però richiedere a chi le ha usate insieme all'affermazione del proprio amore se ritiene che siano di questo espressione, o non piuttosto di rabbia e risentimento.
E poi una riflessione: nessuno mette in dubbio l'intenzione d'amore, e il desiderio di un figlio.
Ma mi domando: a qualunque costo? sia personale, sia in termini di vite umane - perché di questo si tratta - sacrificate al proprio progetto?
Qualcuno ha scritto di essere stato sostenuto (non so se anche consigliato) da sacerdoti: e mi chiedo, e chiedo loro se, per condividere un dolore, una sofferenza, un desiderio, sia giusto cancellare, o dimenticare, o tradire l'insegnamento della Chiesa. Non è meglio mostrarne la ragionevolezza, e suggerirne la vivibilità?
O non è vero che la fede vissuta a rendere più umano l'uomo, più vera la vita?
Non abbiamo proprio nulla da imparare dalla testimonianza di questo grande Papa nel suo stare di fronte alla malattia, al limite umano, alla sofferenza, alla debolezza?
"Accanto a un uomo che soffre, ci vuole un altro uomo", ci ha spesso ricordato Giovanni Paolo II: «accanto» col tesoro della fede vissuta, e non solo con sentimenti di pura umana pietà, che non hanno il coraggio di condividere, attraverso la dolorosa verità, la grande sofferenza, portandone tutti i pesi.
Il problema suscitato è grave, le risposte non sono a buon mercato, nessuno si può o vuole arrogare il diritto di giudicare gli altri: ma non si può arretrare di fronte alla verità della vita, dell'amore, della generazione, che tutti cerchiamo. E non si può offendere chi pensa diversamente, né umiliare, né deridere.
Don Gabriele